Terra Incognita

8 aprile 1999 – Corriere del Ticino

Nelle carte antiche le terre sconosciute venivano indicate con ” hic sunt leones “, qui stanno i leoni, o più comprensibilmente con ” Terra Incognita “. Oggi tanto l’economia quanto la società civile ed i sistemi politici democratici sono entrati in uno spazio aperto e sconosciuto. Trascinati dalle diverse correnti parrebbe di credere che la retta via sia perduta e la rotta smarrita. Alla politica ed ai politici, la società e l’economia sembrano rimproverare di aver perduto l’arte di governare la nave. Tuttavia, bene ha fatto Fulvio Pelli a sottolineare, provocatoriamente, che negli ultimi 5-6 anni, l’economia ha creato molti più problemi alla politica che, al contrario, la politica all’economia. Più che un capro espiatorio, è opportuno e doveroso trovare un “New deal”: un nuovo contratto sociale tra economia, politica, pubblica amministrazione e società civile, laddove ogni componente si rimetta in discussione e recuperi la capacità e lo spirito di sacrificio della propria posizione acquisita a favore della o delle altre.

La società civile composta dai singoli individui dovrà rinunciare a taluni diritti-spettanze tipici di un individualismo eccessivo, frutto di anni di una socialità asettica ed opulenta demandata allo Stato (ente astratto) piuttosto che di una socialità naturale tra individui che si conoscono e si devono qualcosa l’un l’altro.

La pubblica amministrazione (la funzione pubblica) dovrà liberarsi da una sua resistenza intrinseca e giustificata solo a fini burocratici, per divenire un’amministrazione flessibile, aperta alle esigenze del cittadino-cliente.

L’economia chiede allo Stato e ai politici, tra l’altro, una riduzione della pressione fiscale ed una maggior flessibilità nei permessi di lavoro. Al contempo però l’economia carica lo Stato nazionale dei disoccupati ch’ella crea, senza peraltro contribuire all’incremento dei gettito fiscale a beneficio dello Stato, che dovrebbe derivare dalle misure di risparmio e ristrutturazione aziendali.

Il sociologo tedesco Ulrich Beck, nel suo recentissimo libro (“Che cos’è la globalizzazione”, edizione Carocci) descrive molto bene questi fenomeni, questi rischi dell’economia globale che vuole realizzare dapprima lo Stato minimale per poi verosimilmente svuotare lo Stato e la politica della loro ragion d’essere. I politici di oggi, ai vari livelli, debbono guardare sì alle necessità dell’economia globale, ma senza lasciarvisi sedurre eccessivamente, pena diventare, come diceva il vecchio Marx, i “becchini di se stessi”. Tale non può essere l’obiettivo del new deal: tutto per l’economia e nulla per lo Stato. L’obiettivo dell’economia è quello della ricerca del profitto ed i mezzi utilizzati non sono, per ora, discussi secondo regole etiche, morali e sociali: proprio ciò di cui invece si occupa la politica.

Di recente si sente, è va aziendale”. I convegni su tale tema si sprecano. In sostanza la tesi sarebbe la seguente: il declino delle grandi istituzioni morali e sociali (Partiti, Stato, Chiese,…) ha quale effetto d’aver fatto ricadere sull’economia privata attese che prima erano affidate a tali istituzioni. Si tende a credere che le aziende abbiano oggi più potere e risorse delle altre istituzioni democratiche per superare problemi sociali.

Le aziende stesse si stanno rendendo conto che le megafusioni, le chiusure di stabilimenti, le delocalizzazioni avranno fatto lievitare le azioni in Borsa, creando però disoccupazione e disagi. Già da qualche anno le ditte si sono dovute piegare alla sensibilità ecologica dei clienti, modificando le loro confezioni, riducendo le fonti d’inquinamento. Oggi le aziende sono preoccupate che il proprio cliente, il consumatore conquistato con sacrifici e costi, le abbandoni perché esse hanno un bilancio in rosso verso la società civile.

Per riconquistare la clientela perduta o per mantenere quella che hanno, così da poter restare competitive, le aziende, dopo aver razionalizzato e trasferito capitali dove meglio trattati fiscalmente, si sono rese conto della necessità di trovare “valori” da aggiungere ai propri prodotti e servizi, per esempio associando al marchio una “causa” sociale o etica: bambini, salute, fame nel mondo, analfabetismo, ecologia o cultura. La globalizzazione ha fatto si che le megasocietà si assomiglino sempre più e vedano ridotti i margini concorrenziali sui prezzi.

Il cliente deve essere reso fedele al proprio prodotto sulla base quindi di altri fattori che non siano il prezzo, bensì un “valore”, una “causa” etica o sociale.

Vediamo quindi che le aziende tendono a creare e riportare i propri bilanci sociali in positivo, dando ad intendere che così facendo si assumono un ruolo etico in sostituzione a quello regolatore dello Stato.

Se le aziende si occupano di socialità, ecologia e cultura e lo Stato si riduce ai minimi termini, allora l’economia globale avrà vinto sulla democrazia e sulla politica come luogo di reale dibattito etico ed ideologico. La politica discute dei “Valori”, le aziende abbelliscono e farciscono i loro prodotti con dei “Valori”: la differenza è enorme.

Se l’economia di Stato comunista era un errore madornale, l’economia senza Stato mi pare presenti rischi di “dérapage” altrettanto grandi.