Una vita e una morte degna

Settembre 2010 – Progresso sociale

Con una certa regolarità ci ritroviamo tutti confrontati con casi di persone che da tempo si trovano in stato neurovegetativo e quindi si ripresenta la questione etico-morale, oltre che legale, a sapere se l’eutanasia sia giusta e, in caso affermativo, quando e a quali condizioni. Il tema è tornato d’attualità in Svizzera. Infatti, in una recente intervista rilasciata al setti¬manale «Sonntagszeitung» dalla Ministra di Giusti¬zia e Polizia Eveline Widmer-Schlumpf, quest’ultima ha dichiarato di voler rivedere il progetto di legge riguardante l’aiuto al suicidio. Le proposte formulate dal Consiglio federa¬le e inviate in consultazione hanno raccolto dure critiche di cui s’intende tener conto, visto il desiderio espresso da una maggioranza degli ambienti sentiti se¬condo i quali l’aiuto al suicidio non deve più essere limitato alle persone affette da una malattia fisica incurabile il cui esito mortale è ormai prossimo. Alcuni ambienti hanno infatti rimproverato all’esecutivo di aver escluso dall’aiuto al suici¬dio le persone affette da malat¬tie croniche.

Questa critica era stata espressa anche da un organo super partes come la Commissione nazionale di etica, la quale auspica non¬dimeno regole più severe per regolamentare questo delicato settore. La commissione non vuole tuttavia il divieto delle organiz¬zazioni di aiuto al suicidio. La maggioranza dei partiti giudica invece inutile rivedere l’attuale di-ritto in vigore. Le basi legali at¬tuali vietano l’assistenza o l’inci¬tamento al suicidio se alla base vi è un motivo egoista. È sicuramente sensato che la legge ponga dei limiti, in particolare per quanto riguarda l’eutanasia attiva. Rimane la questione se sia sensata sempre e comunque. Non è pensabile in questa sede sviscerare o anche solo pensare di sintetizzare le diverse visioni ed approcci al tema sotto le diverse discipline (giuridiche, religiose, mediche, filosofiche). Si tratta di casi di etica applicata, oltre che di psicologia (del paziente, del medico, dei familiari), di filosofia e di sociologia. L’eutanasia è per lo più definita come un’uccisione dettata dalla pietà. Come già ebbi a scrivere altrove qualche anno fa, vi possono esser diversi tipi di eutanasia: 1) quella volontaria (il paziente esprime il suo desiderio di morire, una forma di suicidio assistito), 2) quella involontaria (il paziente non desidera morire ma il suo desiderio è ignorato: in molti casi questa forma è ritenuta equivalente, a giusto titolo, ad un omicidio); 3) quella “non volontaria” (il paziente non è cosciente o in condizione di esprimere un desiderio). Mi soffermerò soprattutto sull’eutanasia volontaria per dire che la scelta che ognuno farà, sarà in funzione della teoria etica a cui questo si affida: un cristiano agirà in funzione dell’etica cattolica, altri di quella consequenzialista di J. Stuart Mill o quella dell’Imperativo Categorico kantiano o ancora quella utilitaristica. Tuttavia le cose non risultano così semplici neppure restando nei limiti di ciascuna teoria. Ad esempio, a quale dei due seguenti comandamenti un cattolico darà la sua preferenza in un caso concreto: “Non uccidere” o “Ama il prossimo tuo” intendendo che può essere senz’altro un atto d’amore aiutare a morire chi lo desidera. Ma poi, l’inibizione naturale di fronte all’uccisione è ben più antica del cristianesimo. Infatti, la maggior parte degli uomini è senz’altro intuitivamente dell’avviso che sia meglio curare piuttosto che iniettare un veleno o cessare delle cure indispensabili. Questo è un sentimento profondamente radicato nella natura dell’uomo.

“Il diritto di vivere è la fonte di tutti i diritti e correttamente inteso, esso include anche il diritto di morire”, affermava il filosofo Hans Jonas, autore de “Il principio responsabilità”. Indro Montanelli scriveva che “il diritto alla morte è un diritto sacrosanto come il diritto alla vita e rivendico come sacro il mio diritto di scegliere il quando e il come. Noi non pretendiamo che lo Stato riconosca i nostri principi, noi ci accontentiamo che non li perseguiti in pratica”. La morte ci da la possibilità di dare compiutezza alla vita, è quanto afferma un medico inglese (Iona Heath) che lavora da 20 anni con malati terminali. Si tratta di argomenti fondati sul diritto all’autodeterminazione. Per gli utilitaristi, il criterio che rende la vita comunque e ovunque degna di protezione è l’”autocoscienza”. Forse sulla parola “vivere” o “vita” va pure spesa qualche riflessione, come fece James Rachels in un suo libro del 1989 che probabilmente resta tra i migliori sull’argomento (“Quando la vita finisce. La sostenibilità morale dell’eutanasia”), al fine di togliere qualche potenziale ed intrinseca ambiguità. La parola vita può significare due cose ben distinte tra loro: “essere vivi” non è la stessa cosa che “avere un vita da vivere” dotata di significato. Vi sono casi in cui chi è vivo in senso “biologico” non lo è, o non lo è più, in senso “biografico”. Solo se si ha una vita “da vivere”, la vita è in qualche modo “sacra”. “Non uccidere” è una “regola derivante” da un principio ben più fondamentale che ne definisce lo scopo: che è quello di garantire la protezione delle vite individuali. Ma, per proteggere queste, dobbiamo avere un criterio per definire che cosa è vita e che cosa non lo è, salvaguardando in modo coerente chi ritiene di avere “una vita da vivere”. Certo i progressi della scienza medica inducono a ridefinire ciò che è “la morte” (cfr. Gilberto Corbellini, “Così la morte ci aprì il cuore”, in Il sole 24 ore del 3.8.2008, pag. 33 e) ma ciò non dovrebbe pregiudicare il riconoscimento del diritto di non vivere in condizioni innaturali e senza poter comunicare eventuali sofferenze, in assenza di relazioni personali e coscienti. Chi si oppone all’accanimento terapeutico (espressione ormai in uso ma di per sé non felice) afferma che si tratta di un tentativo di far proseguire la vita biologica quando quella biografica è già finita. Socrate esercitò la propria libertà di scelta decidendo di morire quando ritenne che la sua vita non aveva più, biograficamente, senso. Dal profilo medico bisognerà continuare ad investire nella ricerca per comprendere meglio ciò che un paziente neurovegetativo prova. Il parere degli esperti, in questi frangenti è ovviamente molto importante, ma non deve trasformarsi in una scusa per non riflettere, senza pregiudizi, sull’argomento. Da questi pensatori menzionati emerge un sentire comune: un rispetto profondo per la persona umana che è lontano anni luce dalle modalità dell’attuale discussione anche politica sull’argomento. La tradizione cattolica tende ad attribuire la sacralità della vita a qualunque essere umano, in qualsiasi condizione si trovi. In qualsiasi modo la si pensi, e sulla liceità o meno dell’eutanasia o dell’accanimento terapeutico, al di là di ogni sofisma, tra l’eutanasia attiva (che comporta un intervento esterno per provocare la morte) e quella passiva (il semplice “lasciar morire”), dal punto di vista morale non dovrebbe esservi nessuna differenza. “Sono moralmente equivalenti: o sono entrambe accettabili o non lo sono” sosteneva Rachels. Certo già Montanelli, tra altri, si rendeva conto della difficoltà e delicatezza di costruire una norma legale che ammetta esplicitamente il “diritto a morire” e che in qualche modo lo “sacralizzi”. Nel frattempo, oltre a pensare ad un testamento in merito ai nostri Averi, vi è chi sostiene che il testamento biologico, ossia sul nostro Essere, sia quindi importante. Anche qui alcuni autori auspicano una miglior definizione di questo strumento sostituendolo con termini quali: “testamento biografico” o “dichiarazione anticipata di trattamento sanitario”. Rispetto a casi di eutanasia o accanimento terapeutico, le posizioni possono essere di norma tre: 1) l’eutanasia non è lecita in nessun caso, 2) essa è lecita solo se è voluta dall’interessato, 3) ci sono casi in cui sarebbe lecita, e persino auspicabile, anche senza il consenso dell’interessato. Nei casi più recenti riportati dai media, pare che maggiori consensi li abbia ottenuti la seconda delle tre posizioni di cui sopra benché anche per le altre vi siano ottimi argomenti pro e contro. Non va dimenticato neppure che lasciare una tale “Dichiarazione anticipata di trattamento sanitario”, permetterebbe al potenziale futuro interessato di evitare, o quantomeno ridurre, laceranti dilemmi e diatribe tra i familiari ed altri operatori (medici e giudici, tra altri). Anche questo dibattito, seppur spinoso e sgradevole, rientra, a mio avviso, nel novero dei temi per un progresso sociale.

Per maggiori informazioni sul tema:

– James Rachels, Quando la vita finisce. La sostenibilità morale dell’eutanasia, 1989

– Giorgio Cosmacini, Il testamento biologico. Idee ed esperienze per una morte giusta, 2010

– Remo Bodei e AA. VV., Che cosa vuol dire morire, 2010

– Hans Küng e Walter Jens, Della dignità del morire. Una difesa della libera scelta, 2010