Restanze e Partenze

Due concetti, con accezioni positive e negative entrambi; alcuni dilemmi ancora attuali: restare fermi o partire (verso il progresso), salvare i posti di lavoro o ri-partire per crearne di nuovi, emigrare o rimanere, preservare o distruggere e sostituire.
Se “partenza” è parola nota, “restanza” non è così d’uso comune. Essa è, per dizionario, ciò che resta e permane; o, ciò che avanza o non si consuma. Negli studi antropologici, essa è la posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un atteggiamento propositivo. Se in alcune regioni del mondo si constata la crescente tribù di quelli che restano, in nome di un’appartenenza e di un radicamento al luogo (un es. per tutti, il più recente invero, gli ucraini che restano a difendere, e quelli che sono partiti per preservare una progenie futura al rientro postbellico), in altri i flussi di partenze sono in aumento globale. Partire è lo struggente venir meno delle relazioni sociali e del tessuto culturale del proprio Paese (da cui, talvolta, per guerra o fame, si scappa). Chi rimane può essere il custode dei luoghi, il popolo indigeno dei restanti. Ma si tratta di evitare che la restanza, che può essere lacerante, diventi la custodia di un mondo che poteva essere e non è più. L’essere umano è “doppio”, errante e restante, due facce di una medesima vicenda. Il Ticino è stato soprattutto nel secondo ‘800 e inizio ‘900, terra di emigrazione. Nell’ultimo decennio di questo terzo millennio, stiamo constatando il riemergere di questo fenomeno. La nuova visione futura, come politici ticinesi, dev’essere quindi quella di andare ogni tanto oltre le contingenze del momento per chinarci sul tema demografico ed avere delle visioni per dar vita a politiche della restanza, che non hanno molto a che fare con l’elogio del piccolo borgo antico, della Sonnenstube, magari per soli pensionati senza figli e nipoti vicini. Chi rimane deve poter contare su un tessuto di relazioni sociali e di servizi che funzionino, deve poter contare su posti di lavoro stimolanti ed attrattivi, non solo ma anche per il salario, deve poter contare sul progresso e non restare ad un concetto chiuso, conservatore, primativista o troppo identitario. Il progresso è spesso nato tanto dall’intersezione di discipline quanto dalla mescolanza: perché partire è anche cogliere e raccogliere il nuovo e il diverso nelle politiche, nelle modalità di lavoro, nelle esperienze culturali d’altrove, farle proprie e riportarle a casa, rimaneggiandole, farne qualcosa nel nostro territorio. Un ottimo esempio sono forse le nuove culture enogastronomiche che fondono etnico e tradizionale. Ma può valere per tanti ambiti. Insomma, la restanza dev’essere fatta di abitare e lavorare in un luogo ma con la capacità di spaesarsi guardando altrove. E se vogliamo trarre profitto da questa dote, oltre a cercare di fare e offrire il meglio in Ticino, bisogna che ai nostri giovani che partono per studi, per mestiere, venga voglia di tornare ben prima dell’età della pensione. Una restanza attiva, per chi resta e per chi parte affinché al ritorno porti valore aggiunto. Affinché le partenze, il calo demografico, non siano partenze senza ritorno che determinerebbero la morte di un territorio che non vogliamo scompaia dalle mappe o resti una vuota terra di mezzo tra Zurigo e Milano. In breve, è il momento di reagire ai traumi e alle difficoltà, reagire all’urto: essere resilienti (vocabolo emergente nell’uso comune da alcuni anni come a volerci spronare a non restare supini e subire gli eventi, ma per quanto possibile a prevenirli).
Già il 24 marzo 2014, partendo da alcuni atti parlamentari vallesani in cui si rilevava la preoccupazione per la partenza di oltre il 70% dei giovani laureati che poi non rientravano più nel Cantone d’origine, mi permisi interrogare il Governo (n. 67.14) affinché si aiutassero le nostre migliori menti (ben inteso laureate ma anche con formazioni professionali oggi di alta qualità) a restare o ritornare in Ticino. Nella risposta 15 marzo 2015 il Governo indicava che pur non essendoci una statistica puntutale, la stessa illustrava già un saldo negativo per il Canton Ticino, con una perdita migratoria del 10% a un anno dalla conclusione degli studi universitari e del 18% a cinque anni dalla laurea. Si segnalava l’attenzione al tema, oltre che con lo sviluppo e ampliamento del portale OltreconfiniTi (www.ti.ch/oltreconfiniti) e l’istituzione di una rete di “ambasciatori” del Ticino, evidenziando la necessità di disporre di “condizioni quadro” che permettono al nostro Cantone di essere attrattivo: garantire una buona offerta formativa e centri di ricerca di qualità, possibilità di sviluppo della propria carriera o di un’attività aziendale (Fondazione AGIRE, Tecnopolo Ticino, …) nonché, più in generale, un’elevata qualità di vita personale e lavorativa.
Il tema è tornato di attualità da un annetto anche sui media. Segno forse che quanto sopra non è bastato o non è ancora sufficientemente implementato?
Lo scorso 18 ottobre 2021, una mozione interpartitica (primo firmatario Alessandro Speziali) ha sollevato una riflessione sulla necessità di dotarci di una/un delegata/o alle politiche demografiche e alla domiciliazione. La mozione è puntuale e concreta. La demografia è gioco, anch’essa, di restanze e di partenze, di nascite, di popolazione professionalmente attiva e di quella pensionata con tutto ciò che questi flussi comportano in termini di strutture e costi connessi a carico spesso di enti pubblici e quindi contribuenti e cittadini.