Se un docente ti cambia la vita

15 Marzo 2012 – Progresso sociale, periodico Sindacati Indipendenti Ticinesi

Si può avere la fortuna di nascere in una famiglia agiata o in una famiglia in cui la curiosità intellettuale è presente. Ma può anche accadere il contrario. In un caso come nell’altro, al di là delle origini socioeconomiche, la scuola può cercare di migliorare le attitudini dei migliori e/o ridurre le disparità di partenza per cercare di dare a ciascuno le proprie opportunità di costruirsi una vita. Molti di noi possono testimoniare che un buon docente può cambiarti la vita. E per buon docente non s’intende quello che è stato buono, magnanimo, permissivo e via discorrendo. Anzi, spesso è proprio quello più severo, che ci ha fatto penare, di cui ci ricordiamo negli anni. È quel docente che ha creduto in noi e nelle nostre potenzialità, ha insistito, punzecchiandoci, per tirar fuori il meglio di noi. Il ministro della Pubblica istruzione americano, Arne Duncan, ha lanciato la “campagna nazionale per gli insegnanti”, il piano dell’amministrazione Obama per reclutare nuovi talenti da indirizzare verso la scuola. Ebbene sì, il Paese del sogno americano al quale spesso l’Europa si ispira – aspirando tante volte anche il peggio – ha dei problemi gravi a livello d’istruzione pubblica. Gli sforzi dei governi precedenti per riformare la scuola pubblica hanno dato risultati mediocri, e la spiegazione principale del loro fallimento la offre lo stesso ministro Duncan: “Abbiamo avuto paura di parlare di eccellenza a proposito della scuola. Ci siamo occupati degli studenti come fossero i prodotti di una fabbrica, oggetti intercambiabili. Abbiamo avuto un approccio quantitativo al problema: aumentare i fondi, aumentare il numero d’insegnanti; sembrava sufficiente”. Thomas Friedman sul “New York Times” scrive che gli americani hanno ignorato la lezione di quei Paesi che oggi sono in testa alle classifiche mondiali sull’apprendimento: Finlandia, Danimarca; Singapore, Corea del Sud. Sono nazioni molto diverse tra loro, eppure tutte hanno una cosa in comune nell’approccio all’istruzione: hanno smesso di trattare l’insegnamento come fosse una catena di montaggio, un lavoro da operaio-massa, e lo hanno considerato a tutti gli effetti una professione di punta nella società dell’informazione. Il ministro di Obama ha capito che i sistemi scolastici più efficaci del mondo seguono regole simili. “Assumono come insegnanti statali solo coloro che appartengono al 33 per cento dei migliori laureati universitari, la fascia al top di coloro che escono dalle facoltà”. Il docente di Harvard Tony Wagner (autore dello studio “The global Achievement Gap”) aggiunge un ulteriore criterio qualitativo. Oggi, per formare dei ragazzi che abbiano delle buone chance sul mercato del lavoro, bisogna fornirgli tre tipi di competenze: (1) capacità di pensare criticamente per risolvere dei problemi; (2) abilità nel comunicare; (3) attitudine al lavoro di squadra. Adottare i metodi di reclutamento giusti per i docenti e professori è tanto più cruciale oggi perché la scuola pubblica americana sta per subire uno shock demografico: il pensionamento degli insegnanti che appartengono alla generazione del baby-boom, quelle nate tra il 1945 e il 1965. Su 3.2 milioni di insegnanti americani, nel prossimo decennio la metà se ne andrà in pensione. È essenziale che vengano sostituiti con “i professori giusti”, seguendo l’esempio degli asiatici e degli scandinavi, che hanno investito massicciamente nella selezione e nella formazione degli insegnanti, e anche negli incentivi per premiare i migliori e convincerli a rimanere. “Se stai facendo un buon lavoro con i tuoi studenti” dice il ministro Duncan “noi non ti pagheremo mai abbastanza”. Lo stesso dovrebbe fare il Ticino a partire dal Dipartimento di formazione e apprendimento della Supsi per seguire con la cura verso il corpo insegnante ticinese.
Pagare meglio gli insegnanti non è facile in periodi di vacche magre, quando gli Stati sono squattrinati. Ma la politica è un’arte nobile se si occupa di grandi scelte, tanto più se le risorse sono scarse. Tutto sta ad avere le priorità giuste, a indirizzare la spesa pubblica dove serve davvero. Pagare meglio chi istruisce i nostri figli è anche un segnale per cambiare le gerarchie di valori di una società: perché il Trader che specula in Borsa deve girare in Porsche e godere di prestigio mentre il prof. che sta formando le nuove generazioni, se da noi non fatica ad arrivare a fine mese, quantomeno non si è ancora visto togliere il pregiudizio del “vacanziere ad oltranza”? Chi dei due crea più valore aggiunto per la società? Se si vuole avere una politica dell’istruzione che guarda con coraggio ad un futuro di lungo termine, bisogna attrezzarsi a cambiare questi modelli valoriali, gli status sociali e la scala del prestigio delle professioni.
Come applicare politiche di austerità, come sta avvenendo nel resto d’Europa, e dare un futuro ai giovani? La parole chiave è “sviluppo sostenibile”. Il sindacalista tedesco Peter Waldorff, al Forum Economico mondiale di Davos del 2011, dà la sua risposta: “ Ci sono 205 milioni di disoccupati, di questi ben 130 milioni hanno perso il posto durante l’ultima recessione (quella iniziata dal 2008). Gli Stati uniti perderanno un altro milione di posti di lavoro per i tagli al pubblico impiego. L’impatto sulle nostre comunità è devastante. L’unica via d’uscita è puntare sullo sviluppo sostenibile, in due sensi: la sostenibilità ambientale e sociale”. Robert Johnson dell’Istitute for New Economic Thinking rivela che negli Stati Uniti tutta la nuova occupazione ormai viene creata in tre settori non esposti alla concorrenza internazionale e legati in qualche modo alla qualità della vita: salute, servizi alla persona e, guarda un po’, istruzione. Quindi l’istruzione entra a far parte del tanto decantato concetto di sviluppo sostenibile. Aron Cramer, direttore dell’organizzazione The Business of a Better World, ci spiega che la sostenibilità può rendere più competitivi e che è una storia antica “perché le aziende vincenti sono quelle che anche nei momenti più difficili investono nel futuro, e oggi il futuro è proprio la sostenibilità”. Mi chiedo quindi per quale ragione uno Stato, che è pure un’azienda per certi versi, anche, o soprattutto, in un periodo di crisi non debba investire nel futuro, in quello dei giovani, delle generazioni future, partendo proprio dalla qualità della propria istruzione. Qualità che inizia dalla formazione dei docenti, prosegue nella loro selezione tra i migliori laureati e considera degli incentivi affinché trovino la giusta contropartita per il ruolo di prestigio che la professione di docente riveste nella costruzione di intere nuove generazioni. Se è vero, come ho scritto altrove, che “La scuola non basta” (cfr. www.quadranti.ch) poiché poi ci si ritroverà comunque di fronte allo scoglio del mercato del lavoro nel quale inserirsi, indipendentemente dalla pagella e dal titolo di studio conseguito, è pur anche vero che una scuola pubblica sempre migliore resta un obiettivo da perseguire. Se il mercato del lavoro è un gioco a somma zero poiché il numero di impieghi disponibili per i laureati non varia in funzione dell’istruzione della popolazione attiva, è altresì vero che la laurea dà un’infarinatura di cultura generale che potrebbe essere obbligatoria anche nei lavori socialmente meno considerati, spesso a torto, o più umili. In futuro, per selezionare anche questi lavoratori, gli uffici delle risorse umane potrebbero richiedere titoli di studio superiori per il semplice fatto che ciò facilita la selezione, eliminando automaticamente una parte dei candidati. Quindi, la scuola non basta ma serve. L’altra soluzione alla questione delle diseguaglianze risiederà nel remunerare meglio gli impieghi mal pagati, non considerandoli solo come un mero costo. Questo vale a partire già dagli insegnanti.

Avv. Matteo Quadranti, Gran Consigliere PLR