Arianna nella Babele

C’era una volta un filo che collegava il singolo al plurale, l’individuale al collettivo. La cooperazione e la generosità erano maggiori. Si sapeva che non tutto si poteva comprare. La cultura del “dare”, diversa da quella del “prendere” (dell’ingegneria finanziaria), alle origini del capitalismo moderno (XIX sec.), era percepita da imprenditori, artigiani e lavoratori come un obbligo reciproco dove tutti venivano gratificati. La fabbrica era un luogo di solidarietà: si condividevano i problemi privati facendoli divenire interessi collettivi. La democrazia stessa fu trasformazione costante di interessi privati in temi pubblici, e di bisogni pubblici in diritti e doveri privati. Col passaggio dalla società dei produttori a quella dei consumatori, delle agenzie di lavoro interinali, il pendolo si è spostato. Infatti la democrazia è in crisi così come la solidarietà e la cultura del bisogno reciproco. La produttività si è spostata nei paesi a basso costo di manodopera dove forse vi è ancora quell’originale cultura del dare. Nella società del consumo, il mondo ci sembra un enorme contenitore (inestinguibile?) di beni di consumo, di cui non ci sentiamo responsabili. I lavoratori poveri o esclusi non riescono più a far fronte alle proprie responsabilità e cadono in assistenza. La società dovrebbe consentire a tutti di far parte di una vicenda collettiva, di singoli individui liberi, gruppi sociali diversi e portatori di interessi distinti e di condizioni differenti, ma con un orizzonte comune di sviluppo dentro valori condivisi. Ma la società di oggi accetta di convivere quotidianamente con l’esclusione. Il vincente e l’escluso non sono più legati dallo stesso patto di società. L’escluso vive ai margini della democrazia. Le élite del mondo vivono gli spazi cosmopoliti dei flussi finanziari e non si sentono più responsabili per chi vive nei confini degli Stati nazionali. Gli ascensori sociali di una volta hanno perso smalto. I più deboli investivano nella formazione dei figli per proiettarli verso condizioni migliori. Oggi vi sono masse di laureati disoccupati, sottopagati. Il progresso non promette più un futuro migliore, minaccia invece welfare e sicurezza. Ci vorrebbe più ribellione, ma se il vero potere governa altrove, diventa irraggiungibile per chi è condannato alla fissità del luogo, della sua condizione e del suo paesaggio politico. Perciò costui teme e combatte tutto quello che si muove, principalmente tra le frontiere (immigranti, capitali finanziari, globalizzazione, contaminazioni culturali, istituzioni sovranazionali). Il mercato non è democratico, non ha come suo obiettivo la felicità della gente. Non possiamo però lasciar vincere il pessimismo. Le tentazioni dell’irresponsabilità sono quasi irresistibili. Le persone sgravate di responsabilità sono spettatori. Ed è ciò che quei poteri che stanno altrove mirano a farci diventare: consumatori e spettatori ammansiti nella comodità dei beni di consumo e dell’intrattenimento! Quelli che stanno in platea non hanno scritto o diretto la commedia né assegnato le parti agli attori, … e perciò si sentono liberi di sparare sul regista e gli attori. Insomma la colpa sarà sempre facilmente degli altri. Nel 2050 la metà della popolazione in Europa sarà di origine extracomunitaria. Per la prima volta nella storia, tutti i popoli della terra hanno un presente comune. Ogni singolo evento, con la rete, ha effetti politici e culturali istantanei e imprevedibili in tutto il mondo. Lo straniero è diventato il vicino con il quale condividiamo strade, scuole, luoghi di lavoro. È una prossimità destabilizzante che genera irritabilità (o odio) di tutti contro tutti. I popoli che l’Europa dominava non tollerano più le norme prodotte da quella storia. Oggi anch’essi possiedono il potere di fare la storia. Noi europei reagiamo ancora una volta sorpresi dal fatto che la terra delle democrazia diventi bersaglio e nemico di qualcuno e che quel qualcuno è anche cittadino europeo e occidentale come noi. Scopriamo che ha scelto di spogliarsi della nostra dimensione di libertà e di democrazia per rivestirsi di una cultura radicale di morte. Il nostro concetto di multiculturalismo è forse superficiale, un semplice flirt che riconosce la legittimità di culture diverse, ma ignora o rifiuta quanto vi è di sacro e non negoziabile in tali culture. Persone di diverse denominazioni, con credi contrastanti, non possono più escludere gli incontri faccia a faccia. Rammentiamo che al civile Occidente ci sono voluti millenni per abolire la schiavitù e la pena capitale e promuovessimo la parità fra i sessi. E siamo certi che abbiamo raggiunto tutti questi obiettivi una volta per tutte? C`è bisogno di dialogo invece che pugni di ferro, muri ai confini. Lo sforzo titanico, ritiene Zygmunt Bauman, è quello di rinegoziare un nuovo spazio comune. Solo la democrazia ci resta. Se perdiamo anche questa – unica nostra costante culturale – viene meno il diritto al dubbio, l’opinione pubblica lascia il posto al senso comune, che è tutt’uno con quel potere capace di fabbricarlo e diffonderlo. Un’opinione consapevole e responsabile ha bisogno di una democrazia che funzioni. Perché stupirci se non c`è un principio di reazione, se lo spazio pubblico è vuoto, se il potere si è liberato dall’obbligo di rendiconto? Almeno tra i cittadini non sudditi abbiamo bisogno di sapere cosa ci accomuna. Secondo un motto della Guinea equatoriale: “Avviciniamoci al fuoco, per vedere cosa stiamo dicendo!”. Nella Babele odierna, ritroviamo il filo d’Arianna.

 

Matteo Quadranti, deputato