Siamo al capezzale della democrazia?

20 dicembre 2013 – Opinione Liberale-Rubrica Ballate Maltesi

Il tema dello stato di salute della democrazia (che ho già affrontato su OL del 19.4.13) è tuttora di grande attualità un po’ ovunque e soprattutto nei Paesi che vantano l’esperienza democratica più datata. In Ticino appare di profondo interesse e qualità il ciclo di conferenze su “Il Potere” lanciato di recente dal Club Plinio Verda il quale sinora ha organizzato due conferenze: il 5 settembre col prof. Luciano Canfora che ha parlato di “Potere e poteri” e l’8 novembre col prof. Michele Ciliberto sul tema “Potere carismatico e democrazia dispotica”. La riflessione sulle varie forme di potere e sulla legittimità di chi lo esercita nella società contemporanea proseguirà il 13 febbraio prossimo con la conferenza “Il potere e l’influenza delle lobby economiche” in cui interverranno Fulvio Pelli e Sergio Rossi. Ma ampliando la riflessione, interessanti sono l’intervista rilasciata alla Rete Due (e in parte ripresa da La Regione, 6.11.13) dall’intellettuale statunitense Noam Chomsky che ritiene “la democrazia malata” e un articolo pubblicato il 10 novembre sull’inserto “La lettura” del Corriere della Sera, al noi più conosciuto Sergio Romano, il quale conclude che “le democrazie sono in prognosi riservata”.

Il primo, Chomsky, ricorda che ricerche nelle scienze politiche convergono nel sostenere che il 70% della popolazione non ha nessuna influenza sulla politica e che questa aumenta man mano che si sale sulla scala sociale, per modo che in buona sostanza sarebbe ca. l’1% che decide ciò che vuole. Il peso delle élite, rispettivamente delle lobby, vi è sempre stato ma ora sarebbe eccessivo, soprattutto quello delle élite finanziarie come lo affermano anche lo statunitense “Wall Street Journal”, l’inglese “Financial Times” e il “Business Week”, che non sono pubblicazioni di sinistra.

Il secondo, Romano, parte innanzitutto da un breve excursus storico dal quale emerge che le democrazie rappresentative divennero pressoché il modello indiscusso e virtuoso dal secondo dopoguerra e poi anche, con debite eccezioni, nei Paesi emersi dall’ex blocco sovietico e dalla decolonizzazione. Di seguito rileva che era noto che le democrazie rappresentative sono insediate da due minacce permanenti: la corruzione e la demagogia. Se non che, vi era generalmente la convinzione diffusa secondo la quale uno Stato democratico avesse la capacità di correggere continuamente i propri errori. In breve, Romano dà sin qui ragione alla nota affermazione attribuita a Churchill il quale disse che la democrazia è il meno peggio dei sistemi possibili. Tuttavia, menzionando alcune recenti pubblicazioni di professori universitari (un economista, un sociologo e un politologo), egli afferma che “il giudizio sulla democrazia sembra stia cambiando e vengono firmati bollettini sanitari alquanto preoccupanti, se non addirittura pessimistici”. Se in conclusione Romano da qualche speranza in più di sopravvivere alle democrazie europee in quanto più antiche e radicate, egli non tralascia due amare constatazioni: un terzo (almeno) dell’elettorato occidentale non va alle urne perché non crede (a torto) all’utilità del suo voto e un terzo è composto da persone che detestano, insieme alla loro classe dirigente, politica e economica, anche coloro che hanno diverso colore della pelle o un diverso credo religioso. Qui la maggiore minaccia alla democrazia è la pretesa di un voto continuo e rabbioso, in ogni momento, della giornata gettato nell’urna dei social network.

Al di là di queste riflessioni critiche, di recente, sono emerse anche posizioni più radicali e provocatorie. Una di queste è quella di Alain Tourraine, il maggior sociologo francese vivente, il quale nel suo recente libro “La fine delle società” ritiene che si stia assistendo alla distruzione delle istituzioni sociali quali democrazia, città, scuola, famiglia. A suo giudizio la crisi fiscale degli Stati e la loro difficoltà a gestire le risorse necessarie al funzionamento delle istituzioni sociali, per via dell’aumento smisurato del potere della finanza, crea una separazione tra risorse e valori culturali e quindi priva le istituzioni del loro contenuto. Touraine intende in buona sostanza che vi è una delegittimazione di quegli ordinamenti e di quelle regole che non rispondono più alle esigenze di democrazia, uguaglianza e libertà a cui le persone aspirano. La crisi della democrazia è in parte anche conseguenza della globalizzazione economica a cui non ha fatto seguito una governance politica democratica globale. Anzi, la reazione è stata l’insorgere di localismi, “nazionalismi” e populismi visti come dimensione “ideale” della rappresentanza democratica e desiderio – quando non illusione – di mantenere il controllo su tutto ciò che accade vicino e lontano da noi. Il politologo Benjamin Barber, anch’egli sfiorando la provocazione, nel suo ultimo libro “Se i sindaci governassero il mondo. Nazioni disfunzionali, città emergenti”, ipotizza che forse il mondo andrebbe meglio se fossero i sindaci delle grandi città a comandare. Infatti scrive: “la manutenzione delle fogne, non è un problema di destra o di sinistra mentre le classi dirigenti nazionali sono ormai paralizzate dalla dimensione delle sfide”. In realtà Barber ci vuol far riflettere sulla perdita della “giusta rappresentanza” che affligge le democrazie odierne. Che fare? Come prevenire il peggio? Manca una visione ben chiara e condivisa di un Bene Comune. Talvolta ci si affida alla demagogia che poi accresce la rabbia e la delusione quando le promesse si dimostrano false. Altre volte, governi e parlamenti scelgono di difendere il proprio residuo benessere fregandosene degli altri. Ma sempre risulta evidente che non ci si vuole confrontare con la minaccia più grave: il pericolo di uno tsunami antidemocratico.

Matteo Quadranti