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A 100 anni dalla rivoluzione russa, qualche riflessione sulle rivoluzioni in genere.
Le rivoluzioni generano, praticamente sempre, regimi che vanno sostenuti con la brutalità e il terrore.
La nostra storia ci racconta che la rivoluzione inglese evolve dal protettorato di Cromwell, da quella francese scaturisce il regime di Napoleone, alla rivoluzione irlandese segue una sanguinosa guerra civile. Vi sono poi le rivoluzioni anticoloniali come quella algerina da cui è nato un regime dispotico. La rivoluzione russa spaccò la sinistra socialdemocratica sul nascere indebolendola a favore dei nazionalismi e del regime comunista. Gli esiti delle rivoluzioni maoista e komeinista sono sotto gli occhi di tutti. Che dire della rivoluzione bolivariana dei regimi di Chavez e Maduro in Venezuela? Dopo la caduta del Muro di Berlino qualcuno aveva pensato che la storia fosse finita e se finiva con essa finivano anche le rivoluzioni. Ma non è andata così come lo attestano tra altre le primavere arabe. L’incapacità dell’Occidente di aiutare i moderati insorti, perseguendo solo i propri interessi economici e politici a breve termine, di fatto, si sono agevolati i fondamentalisti. Questa è la Storia e l’Europa ne è stata a lungo al centro, ragion per cui difficile immaginare come possa chiamarsi fuori. L’Occidente ha dimenticato che per fare una rivoluzione serve una rivolta interiore in nome della libertà. Libertà e uguaglianza sono due tra i concetti più dibattuti del pensiero politico. Ma la relazione tra i due non è sufficientemente discussa. È opinione diffusa che i due concetti siano in conflitto al punto da ipotizzare che ogni società umana debba essere o più libera o più egualitaria.
La classe lavoratrice e spesso povera è cresciuta, in ogni epoca, in un mondo gerarchico; le è stato insegnato che la diseguaglianza è naturale. Per cui le masse chiedono i Leader. Ma quanti di questi sono stati necessari al fine di raggiungere l’uguaglianza? Nessuno. La prima diseguaglianza di un regime rivoluzionario è quella della conoscenza: i nuovi governanti sono depositari delle “posizioni ideologiche corrette” e ai governati deve essere insegnato cosa pensare mediante confisca dei mezzi di comunicazione e dei sistemi educativi. La storia ci dice ancora che i poveri sono sempre stati una minoranza numerosa il cui stato di bisogno li ha ridotti a concentrarsi sui bisogni minimi: cibo, desiderio sessuale e riposo dalle fatiche. In nome di queste masse da liberare, in realtà i potenti hanno trovato il modo di accrescere la propria potenza ciò che avvenne dai tempi di Roma, di Filippo il Macedone, Alessandro Magno, i Goti, Visigoti ecc. I poveri divennero eserciti, carne da macello. Oggi i cambiamenti non sono più locali o regionali bensì mondiali. La globalizzazione è la grande novità anche in ambito rivoluzionario. I poveri restano massa da manovrare. Ad essi puntano oggi i fondamentalisti. Il problema è che una grande maggioranza non vuole la libertà, anzi ne ha paura. La libertà, abbiamo visto, non è una aspirazione umana universale. La maggior parte delle persone non l’ha mai vissuta, né ha mai mostrato quindi di avere la capacità di viverla. La libertà non è una costruzione, ma un “fatto politico”. Il fatto che la libertà sia in fondo l’esito fortuito (in Occidente) di una evoluzione imprevedibile non la rende meno preziosa. La massa invero ha fame di riduzione delle diseguaglianze tramite politiche fiscali e di lavoro stabile con equo salario tramite politiche economiche e sociali.
Il ribelle, a differenza del rivoluzionario, è colui che sceglie la strada della resistenza ogni volta che si trova di fronte a un potere che sente iniquo, sia il potere politico, sia il potere del conformismo e del consumismo, sia (persino!) il poter prodotto dalla rivoluzione che lui stesso ha contribuito a plasmare. La lingua inglese per libertà ha due vocaboli e uno di essi è “freedom” che etimologicamente significa appunto libero dal dominio. Il rivoluzionario, specie se di professione, più facilmente del ribelle, si muta in conservatore; il ribelle, invece, ha sempre un ordine costituito da rimettere in discussione. Il ribelle si svincola da moralismi e ideologie, ma ha una sua etica. I “despoti” politici e i potenti economici tendono ad attribuire un significato “criminale” alla resistenza e anche al semplice non accoglimento delle loro pretese e aspettative: nascono quindi settori precisi con l’incarico di organizzare la propaganda d’indottrinamento e la violenza psicologica se non fisica. Subdola è l’oppressione in nome di una pace, di una stabilità, di una democrazia che altro non è che conservazione del potere o del potente di turno. Il ribelle ha desiderio di libertà. E se tale desiderio viene espresso, esso diventa pericoloso per il potere. Bisogna essere liberi per volerlo diventare, ribelli. La libertà è un mezzo, non solo un valore. Un mezzo per ottenere più libertà. L’etica del ribelle è una resistenza contro ogni tendenza distruttiva. Junger diceva che nell’essere umano alberga qualcosa di “eterno” che “nessun potere temporale potrà mai strappargli”. Darwin era un ribelle, Galileo era un ribelle, uomini di scienza il cui desiderio di sincerità li spinse a sfidare l’opinione pubblica e il potere dell’epoca. Di essi ci ricordiamo. Osarono tentare dichiarazioni di indipendenza dal dominante e della loro scienza abbiamo tratto tutti profitto. Di molti rivoluzionari non rammentiamo nulla se non gli orrori delle loro dittature.
Mi ribello perché non venga meno la mia esigenza di sincerità.
Matteo Quadranti, gran consigliere