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Agosto 2009 – IL GINNASTA
Nell’ambito delle varie attività proposte dalla Commissione Formazione dell’ACTG, lo scorso 4 giugno 2009, si è tenuta un’interessantissima conferenza del Prof. Franco Zambelloni, docente di Filosofia, il quale ha esposto le ragioni per le quali, in chiave antropologica, l’agonismo sportivo sia una pratica sublimata e ritualizzata per incanalare l’aggressività dell’uomo verso obiettivi non distruttivi. Difficile ripercorrere la sottile e dotta sequenza di argomenti e riferimenti sviscerati dal prof. Zambelloni ma, come nello sport, tentar non nuoce. “L’importante non è vincere, ma partecipare” è la celebre quanto frequente frase attribuita all’umanista francese che reinventò le Olimpiadi moderne, ovvero Pierre De Coubertin, ripartendo di nuovo da Atene nel 1896. Con ciò De Coubertin ambiva ad utilizzare i Giochi Olimpici come sede d’incontro fraterno tra i popoli, per la causa della pace. Se non che, rileva Zambelloni, ciò non è vero né oggi, né lo era all’epoca delle Olimpiadi classiche dell’Antica Grecia le quali nacquero nel 776 a.C. ad Olimpia, non a caso uno dei maggiori centri religiosi (rituali) dell’epoca. La vittoria ad Olimpia era ritenuta la più nobile (quasi più che quella conseguita in battaglia) poiché ci si andava a difendere l’onore delle proprie città in cambio di un ramoscello d’ulivo. In realtà, i Giochi erano sì, da un lato, l’unico momento di unità della Grecia, altrimenti quasi perennemente in guerra tra le sue Città-Stato (polis), ma dall’altro, vedevano anche discipline sportive tanto truci (ad es. il Pancrazio, un tipo di lotta senza esclusione di colpi “bassi”) da essere spesso e volentieri mortali. Inoltre, dopo il “sacro” ramoscello d’ulivo i vincitori, già allora, erano eroi ricoperti di doni preziosi dalle proprie città. Nel 393 a.C. Sant’Ambrogio emanò un editto che pose fine alla tradizione olimpica antica ch’era in realtà piuttosto una cerimonia sacra in onore di defunti e divinità a cui offrire fatica, sudore e talvolta la vita dei vinti. Lo sport, come noi lo conosciamo, nasce dall‘incrocio di elementi come: violenza, rito sacro, pace, gioco (fascino del rischio).
La specie umana è la più aggressiva tra i vertebrati. Dal 1496 a.C. al 1861 d.C. pare vi siano stati 227 anni di pace e 3357 anni di guerra (un rapporto di 1 a 13). Negli ultimi 3 secoli sono state combattute nella sola Europa 286 guerre. Dal 1560 a.C. al 1860 d.C. pare siano stati conclusi almeno 8000 trattati di pace, destinati a durare per sempre, mentre di fatto la loro durata media di validità fu di 2 anni. Altri autori citati da Zambelloni indicano che dal 1820 al 1945 ben 59 milioni di uomini sono stati uccisi in conflitti. Di regola, almeno negli altri vertebrati, l’aggressione tra membri della stessa specie (leoni, daini, scimpanzè,…) raramente porta alla morte di uno dei contendenti. Al vinto resta l‘esilio dal branco, dal territorio o la rinuncia alla femmina. Il duello è fatto di rituali intimidatori (grida, esibizioni corporee, rincorse,…) senza che artigli o corna abbiano poi ad essere usate per uccidere. I riti limitano le conseguenze dell’aggressività. L’uomo ha cercato anche dei “rituali” cavallereschi o, più recentemente, di rispetto dei civili e dei nemici (Convenzioni di Ginevra, CICR, …). Lo sport, con le sue regole, il fair-play, presenta anch’esso questi elementi ritualistici. Hooligans a parte, i tifosi genuini, con i loro inni e suoni, incanalano l’aggressività, s’immedesimano nel giocatore e il ritmo stesso dell’incitazione è una scarica di adrenalina. Oggi, grazie agli sviluppi della scienza nella chimica cerebrale sappiamo che alla base del cervello si trova l’ipotalamo. In caso di pericolo o d’ira, l’inibizione solita cessa e l’ipotalamo entra in funzione provocando l’emissione di adrenalina e cortisone (cortisolo, l’ormone dello stress) dalle glandole surrenali che riversate nel circolo sanguigno scatenano l’aggressività. Uno stress permanente o prolungato può avere effetti durevoli sull’intelletto. Vi è quindi un’aggressività reattiva che si manifesta quando l’individuo viene disturbato nel suo benessere o in quello del suo gruppo di appartenenza. Gli etologi come Konrad Lorenz si sono posti il quesito a sapere se gli esseri umani sono solo aggressivi o se hanno anche una morale. Le inclinazioni fissate nel programma genetico della nostra specie paiono non essere sufficienti a soddisfare le pretese della società moderna, costituita da milioni di individui. In un gruppo limitato, di amici, ognuno affronterà gravi pericoli per salvare il compagno. Un sociologo americano ha calcolato che il numero ottimale di persone, per un “gruppo” cementato da stretti legami, è di 11 elementi. Guarda caso il numero dei membri di una squadra in diversi giochi. Come non pensare poi, riporta sempre Zambelloni, al fatto che dei 12 discepoli di Gesù solo 11 gli furono fedeli?
A quanto è pare l’uomo non è malvagio per “nascita”, ma egli è buono “quanto basta” per una “società” di 11 persone, mentre non lo è, almeno in misura tale o equivalente da esporsi nella difesa di uno qualunque degli altri individui anonimi che costituiscono la società di massa. Le norme di comportamento dettate dalla nostra civiltà (leggi, regole morali, codici sportivi, religioni,…), i comandi e i divieti in esse contenute, ci impongono di fare violenza ai programmi innati del nostro comportamento per poter, bene o male “con-vivere” con l’altro, l’avversario, il nemico, l’antagonista. Quante volte e in quanti ambiti (sportivo, politico, religioso,…), quando un evento crea disordine all’interno di un “gruppo”, i suoi membri trovano necessario focalizzare un “nemico”, un “responsabile” al fine di riportare l’ordine al proprio interno e convogliare la propria aggressività all’esterno?
Tutto questo può apparire inquietante, aggiungo io, ma ponendosi domande e cercando risposte, il genere umano ha saputo anche fare progressi e inventare alcune cose positive e tra queste, ritengo, la Ginnastica.
Avv. Matteo Quadranti, pres. ACTG