Nessuna mano invisibile per il futuro del Pianeta

Da secoli e soprattutto dalla caduta del Muro di Berlino, l’economia di tipo capitalistico (liberista) ha vissuto sulla teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, della legge del più forte di darwiniana memoria e del “laissez faire”. In breve, ed estrema semplificazione, le leggi del libero mercato pensano e risolvo tutto: producono ricchezza, generano indotto e distribuiscono a loro volta ricchezza. Che poi non tutto sia andato e vada così pare essere indiscutibile. Intanto, salvo qualche irriducibile, anche la destra protezionistica richiede l’intervento dello Stato in vari modi: dalla delega al privato di attività di interesse pubblico generale in modo tanto sussidiario quanto però sussidiato con soldi pubblici, dagli investimenti infrastrutturali necessari a far girare certi settori in difficoltà congiunturale agli aiuti pubblici alla ricerca tecnologica che genera benefici privati. Oggi ci troviamo tuttavia in un’epoca in cui per dare l’inevitabile svolta verde, rispettosa dell’ambiente, tutti chiedono allo Stato che metta a disposizione degli incentivi. Insomma, per salvare il pianeta o per una utopia più concreta e un futuro più prossimo, nessuna mano invisibile e miracolosa ci toglierà le castagne dal fuoco senza la presa di coscienza politica. La manina di una ragazzina pare averci dato una scossa ma certo ci vuole l’impegno di tutti. A partire dagli economisti che dovranno aiutare i politici nel trovare la misura del benessere che distingua tra vera creazione di ricchezza e dissipazione di capitale naturale. Tra la decrescita radicale alle origini e una soluzione più sostenibile, e direi liberale, io starei con chi ritiene che ci voglia una accelerazione ma nella crescita della transizione tecnologica: nuovi materiali, nuove fonti di energia, nuovi modelli infrastrutturali intelligenti. Una crescita tecnologica basata sui servizi più che sugli oggetti e che però necessiterà di essere promossa, guidata e sostenuta da e tramite gli enti pubblici perché il mercato vive di consumi e prospera se sono elevati, il singolo cittadino abituato all’individualismo del boom economico e ad un eccesso di beni di consumo difficilmente riuscirà a passare a modelli di vita e stili di consumo più sobri. L’economista Kate Raworth nel suo libro “L’economia della ciambella” immagina il futuro dell’economia come due cerchi. Quello interno costituisce la “base sociale” e definisce i bisogni non solo primari (mangiare, bere, dormire, …) ma quelli che l’ONU riconoscere essere il diritto ad una vita dignitosa. Quello esterno detto “limite o tetto ambientale” oltre il quale vi è lo stravolgimento climatico del pianeta (inquinamento chimico, biodiversità persa, acidificazione degli oceani, mancanza d’acqua dolce, …). Tra i due cerchi c’è la ciambella che è quello spazio entro cui è possibile immaginare uno sviluppo durevole a favore dei nostri discendenti. Non possiamo più vivere da nababbi vendendo i gioielli di famiglia: le risorse naturali del pianeta. In passato quando i regni o imperi arrivavano al limite interno creavano colonie oppure assoggettavano nuovi popoli o spostavano le frontiere. La rivoluzione industriale ha poi permesso la moltiplicazione del potere produttivo dell’uomo. Ma oggi, in un mondo globale, con la crescita demografica planetaria che viviamo e la voglia di consumo di quei 7.7 miliardi di persone non abitanti l’occidente opulento, la prossima frontiera o colonia non si troverebbe sulla Terra e men che meno nell’aldilà, per chi ci crede. Quindi se non vogliamo che i nostri figli ci rimproverino d’essere stati troppo avidi ed egoisti, non ci resta che iniziare a pensare, se non alla fine del capitalismo, almeno al fatto che cresce la consapevolezza del rischio di una fine del mondo. Ignorarlo significa mettere in pericolo, di riflesso, la democrazia che con liberalismo ha fatto la storia degli ultimi 3 secoli. La democrazia e l’ambiente hanno bisogno dei numeri, quelli di una maggioranza di persone e politici consapevoli.

Matteo QUADRANTI, gran consigliere PLR