Mr. Robinson: tra proprietà e consumo

Maggio 2010 – Progresso sociale

Il consumo consuma, soprattutto l’uomo

Sir William Blackstone, un progressista dell’epoca, affermava nel suo commentario al diritto inglese del 1766: “Non c’è nulla che metta le ali alla fantasia umana e accenda le passioni dell’uomo come il diritto di proprietà, che è quel potere esclusivo e dispotico che un essere umano rivendica ed esercita sulle realtà esteriori di questo mondo, escludendo di conseguenza il diritto di ogni altro essere vivente di questo universo”. La proprietà è un rapporto tra noi e una cosa, e questo rapporto non riguarda nessuno al di fuori di noi. Ma è proprio così? Parrebbe di no.

Nel 1719 Daniel Defoe pubblicò “La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe”. Un pochino rivoluzionario, Defoe, che fu dapprima commerciante e giornalista, aveva due temi a lui cari: la religione (si batté per la tolleranza religiosa) e l’economia. La trama del romanzo, ispirata alla storia vera del marinaio Alexander Selkirk, dovrebbe essere nota ai più. Meno note sono forse le suggestioni in tema di proprietà di cui il romanzo è farcito. Dopo aver esplorato l’isola dove, rimase poi per oltre 28 anni, Robinson si rende conto che tutto ciò che vi si trova non appartiene ancora a nessuno e dunque inizia a dirsi, e in modo insistente, quasi maniacale: “Questo pappagallo è mio, questa capanna che ho costruito appartiene a me, ecc…”. Ma a che pro, visto che è solo sull’isola? È ovvio che tutta questa appropriazione non ha nessun interesse. Finché non si presenta qualcuno (il sig. Venerdì di turno) che sia pronto a contestare i Suoi possedimenti, tutto quel diritto di proprietà non ha alcun valore. Infatti l’idea di proprietà diventa importante soltanto laddove entrano in gioco altre persone. La proprietà non sarebbe una questione che riguarda il rapporto tra uomini e cose, ma un “contratto” tra esseri umani. Quindi se non vivo su un’isola deserta e disabitata, non posso usare la mia proprietà comunque e ovunque con la stessa libertà di cui godeva Robinson. L’uso della proprietà comporta diritti ma anche doveri. Non posso gettare i Miei rifiuti nel lago, senza rischiare di essere denunciato per inquinamento ambientale. Però Robinson non è poi così ingenuo quando, malgrado la situazione d’isolamento nella quale si trova, insiste nel dichiararsi proprietario di tutte le cose che gli stanno a cuore. Infatti pur sapendo che nessuno gliele contesterà, il naufrago sa che la proprietà è in gran parte anche un rapporto psicologico con le cose, una rivendicazione di possesso. Questa idea di proprietà come rapporto uomo-cosa non è poi così sbagliata al di là di quanto i giuristi siano disposti a riconoscere. Ciò che gli appartiene, gli è più caro di ciò che non dice appartenergli. Un pioniere del rapporto di ”amore” tra uomo e cose fu il sociologo berlinese Georg Simmel che nel 1900 pubblicò Filosofia del denaro. Chiunque acquisti una cosa, fosse anche simbolicamente come nel caso di Robinson, ne rivendica il possesso al punto da trasformala in una parte del proprio essere. Proprietà e possesso ci mettono in condizione di espanderci psicologicamente, di “allargare il nostro io”. Il proprietario di una Ferrari, come anche l’Easy Rider, sono riconducibili a “tipi” ben precisi. Una volta costruita la sua capanna, Crusoe prova la fierezza del proprio lavoro e desidera marcarne il suo possesso. Egli usa le cose possedute per disegnare un’immagine di sé stesso. Ma perché gli uomini si “realizzano” a diversi livelli, acquisendo dei beni da possedere? E perché è più importante acquisire che possedere? Nell’attuale mondo industrializzato l’acquisizione di cose e di immagini, è una delle principali fonti di felicità. In tal senso pare abbiano sostituito le fonti tradizionali che potevano essere la fede religiosa e l’amore. Si potrebbe discutere se il fatto che i rapporti d’amore durino sempre meno sia dovuto alla tendenza consumistica. Anche l’amore si trasforma in un mercato di brividi effimeri, acquisti e vendite. Ma si potrebbe anche sostenere il sospetto contrario, ovvero che l’amore non garantendo più la lunga durata, si passa al consumo, semplicemente perché è più affidabile. Una Ferrari sarà sempre una Ferrari. Una persona amata, un amico, non da la stessa garanzia. Forse per questo le persone anziane che vivono una vita tranquilla preferiscono oggetti che mantengono il loro valore a lungo, mentre i giovani, che hanno meno bisogno di affidabilità emotiva, preferiscono i cambiamenti della moda. Con un ritmo mozzafiato, la nostra economia vive dell’invenzione di cose nuove e dell’oblio di quelle vecchie, dell’acquisto, usa e getta. La proprietà è quindi un problema, oltre che giuridico, anche psicologico.

La nostra è una società sempre più fondata sul consumo con due possibili effetti: (a) trasformare non solo la natura, ma l’umano stesso in merce, e le relazioni sociali in transazioni di mercato (b) marginalizzare/banalizzare ciò che comunque resiste a una simile assimilazione (ad esempio la stessa fede viene ridotta a puro “credo” senza ragioni oggettivamente documentabili). Anche la cultura, frutto non dell’opera dell’uomo, subisce un processo di evacuazione che in nome dell’essenziale (per l’appunto: “Consumate, per tutto il resto ripassate!”) finisce per gettare dalla finestra passioni, sentimenti, credenze, tradizioni, memorie, paure, desideri, sogni. Occorrerebbe una nuova economia che metta al centro gli interessi umani al posto della domanda e dell’offerta, del profitto.

In Consumati (Einaudi), Benjamin Barber sostiene che una infantilizzazione di massa domina l’attuale fase del capitalismo. Egli scrive: “Nel nuovo vangelo del consumo la spesa è sacra, come il risparmio era sacro nel vangelo tradizionale dell’investimento”. E lo shopper ideale ha i tratti psicologici ed emotivi del pre-adolescente. La tesi è forse troppo apodittica. Ma l’immagine centrale del consumatore bambino resta suggestiva ed efficace. Perché il capitalismo consumistico possa prevalere, bisogna far sì che i bambini diventino consumatori o che i consumatori diventino bambini. Infatti la spesa in pubblicità rivolta ai bambini è aumentata dai 100 milioni di dollari del 1990 a oltre 2 miliardi nel 2000. Se dal secondo dopoguerra del secolo scorso, erano i giovani, i cosiddetti “teenager”, a fungere da laboratorio per i consumi, è anche vero che sino a una decina di anni fa, le culture giovanili sono state contemporaneamente forme di consumo, ma anche di critica; di marketing, ma anche di controcultura. Oggi, se le cose stanno come afferma la sociologia, allora il concetto stesso di “gap” generazionale, molla di modernizzazione delle società, perde di significato se il modello di consumatore diventa il pre-adolescente. I bambini vengono spinti più rapidamente possibile a diventare piccoli consumatori, e una volta raggiunta la pubertà precoce, possono rimanerci idealmente sine die. Bamboccioni, però cullati non dalla famiglia o dalla scuola, ma da forme ludiche sempre più complesse ed integrate. Tradizionalmente, la sociologia afferma che il consumismo è una forma di oppressione: gli esperti di marketing ci manipolano riducendoci a vittime passive che consumano, di più, di continuo e senza scopo, agli ordini di un’industria pubblicitaria che genera falsi desideri facendoci credere che acquistando oggetti disparati equivale ad acquistare la felicità. Un coro di insigni commentatori condanna all’unisono gli sprechi. La gente vuole Cose/Roba; vuole comprare e possedere. Vi è evidentemente chi sostiene che, nella vita contemporanea, il consumo è la forma assunta da passione e creatività. Attraverso l’acquisto e il possesso delle Cose, essi dicono, definiamo noi stessi, interpretiamo la nostra società e diamo coerenza alla nostra vita. Tutto questo offre una posizione sociale, prestigio. Attraverso l’acquisto di cose tangibili, ci si vuol procurare il possesso di cose intangibili. Solo che tutte le cose che vale davvero la pena di possedere nella vita, come la generosità, la saggezza e gli affetti umani, non sono in vendita nei centri commerciali. Alla fine, parafrasando Elias Canetti, (La provincia dell’uomo), resta la casa nuda, resta la nuda vita, ma non più l’umano. Bisogna riconoscerlo: il consumo consuma, soprattutto l’uomo.