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Nelle scienze umane è chiaro che i salti innovativi di paradigma sono venuti quando i rispettivi linguaggi sono entrati in tensione reciproca, penetrandosi l’un l’altro. L’incremento di ogni sapere viene sempre da qualcosa che si trova all’esterno, modificando l’identità, lo status originario di quel sapere. Comunità e identità sono due concetti tornati oggi prepotentemente alla ribalta del discorso politico sempre più “nazionalpopolare” a fronte di una realtà sempre più globalizzata economicamente e umanamente cosmopolita e interconnessa, che piaccia o no. Al “klein aber mein”, ovvero “piccolo ma mio”, politicamente sbandierato dai vari movimenti populisti di destra e di sinistra, si contrappone il dato oggettivo della condizione esistenziale cosmopolita realizzatasi sia per la deregolamentazione economico-finanziaria sia per una rete (digitale) che mostra a tutti, anche ai diseredati, agli scarti dell’umanità, come e dove vive il lusso, lo spreco e l’abbondanza del superfluo. Invece che ripartire dalla visione kantiana di un’unificazione civile dell’umanità come dato comunitario globale, stiamo andando in senso letteralmente opposto. Il progresso per i Leader di oggi (Trump, Putin, Erdogan, Modi, Orban & Co.) è il ritorno alle tribù (seppur grandi che siano), sostenendo demagogicamente che “vox populi vox dei” mentre di fatto il rapporto tra loro e i loro seguaci è tutt’altro che democratico, bensì autoritario nel solco del mito dell’“uomo forte”, che reprime le minoranze e i dissidenti. La connessione tra Leader e popolo si fonda sulla sovrapposizione accidentale tra le ambizioni personali del Leader (con la sua corte) e le ferite e la rabbia dei suoi sostenitori. Ma i Leader sanno di avere solo poteri locali, al massimo nazionali e che qualsiasi politica proporranno si scontrerà con la realtà economica mondiale. Destinati a fallire non possono che mentire. L’economia americana è di fatto in mano ai cinesi e quella cinese dipende dalle materie prime africane e dell’America latina mentre ognuno dipende in larga misura dal petrolio del Medioriente. Quindi se di solidarietà nazionale e di comunità vogliamo parlare, le soluzioni non possono essere che globali, aperte al mondo. In tal senso la vera scuola che deve venire dovrà tener conto che apprendere l’inglese e l’informatica in tenera età sarà un vantaggio competitivo per i ticinesi e ciò perché le neuroscienze dimostrano che il nostro cervello (quello dei nostri figli) apprende molto più facilmente e velocemente dagli 0 a 12 anni. E se il futuro sta nei talenti da attirare e mantenere più che nei capitali (già abbondanti) per le start-up, allora difficile immaginare un talento di per sé rivolto alla “co-munità” internazionale del sapere, dell’economia e della tecnologia rinchiuso in un territorio che volesse una sua “im-munità” da tutto ciò che viene da altrove. La rivoluzione che ci attende sarà mentale e culturale. I problemi di oggi impongono: riflessione e pianificazione sul lungo periodo, due arti sacrificate sull’altare della tirannia del momento, sulle promesse fasulle e di corto termine dei Leader fumosi, fuorvianti e antidemocratici. Abbiamo bisogno di menti lucide, pazienza ed un’autentica visione globale a lungo termine. C’è bisogno più che mai di una moltitudine veramente liberale.
Matteo Quadranti, granconsigliere