L’importanza dei sindacati nel terzo millennio

21 settembre 2012 – Progresso sociale- Rivista dei Sindacati Indipendenti Ticinesi

Se è fuor di dubbio che le associazioni padronali hanno una loro utilità quando esercitano le proprie attività lobbistiche, altrettanto dovrebbe valere per i sindacati che hanno per obiettivo la difesa dei diritti sociali e umani dei lavoratori: una conquista, questa, sudata nel corso del secolo scorso e che fa parte di quei valori storici e fondamentali di uno Stato democratico e di diritto di cui in particolare l’Europa deve andar fiera. Ma allora perché riaffermare qui l’importanza dei sindacati? Per il semplice fatto che l’esistenza dei sindacati, il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e l’utilità della ricerca del giusto compromesso tra datori di lavoro e lavoratori non sono dati acquisiti in tutte le parti del mondo (si vedano ad esempio Cina e India citati tra i cosiddetti paesi emergenti e con una forte crescita economica, talvolta con paura ma altre volte come “modelli”). Inoltre anche in alcuni Paesi occidentali (USA in primis) il ruolo dei sindacati, segnatamente dopo la caduta del muro di Berlino e l’avvento della globalizzazione, è stato vieppiù ostacolato da una certa destra e da una certa visione del capitalismo che ha puntato sulle deregulation dei mercati piuttosto che su di una governance sociale della globalizzazione. Tra gli imprenditori e manager occidentali non di rado si sente la seguente provocazione: perché non esportiamo i sindacati in Cina? In questa provocazione, che vuol sottolineare l’insofferenza del nostro mondo padronale verso i vincoli del mondo del lavoro sindacalizzato, vi è tuttavia una verità che è quella che auspica l’esportazione verso i paesi emergenti di alcuni dei nostri valori, tra cui quelli dei diritti sociali, nel contesto di una globalizzazione che sia negoziata e non deregolamentata. Qualcosa di simile appare ad esempio nel trattato di libero scambio firmato da Obama nel 2011 con la Colombia, laddove per la prima volta sono state inserite delle clausole che promuovono i diritti sindacali dei lavoratori colombiani e la protezione dell’ambiente. Essere progressisti vuol dire inseguire un progetto che possa far bene all’Africa e all’Asia mentre al contempo fa bene anche a noi. Un esempio di paese emergente, più in positivo ma molto meno citato alle nostre latitudini, è il Brasile socialdemocratico. Quest’ultimo è forse quello che per ora ha saputo affrontare la crescita economica aggredendo la povertà, attenuando le diseguaglianze ad esempio corrispondendo a 25 milioni di lavoratori un salario minimo garantito. Altrettanto non si può dire di altri paesi quali il Venezuela e Cuba. A prescindere dal colore politico dei cancellieri che hanno governato la Germania negli ultimi due decenni, il “New York Times” ha osservato che “tutti hanno impedito la decimazione dei sindacati che di contro è avvenuta negli USA”. La forza dei sindacati è ritenuta da questa prestigiosa testata giornalistica “una delle spiegazioni per cui le classi lavoratrici e il ceto medio germanico hanno goduto di un maggiore benessere rispetto agli americani”. Il modello tedesco (alti salari e forti diritti sindacali), seguito dall’ Olanda e dai Paesi scandinavi, ha costretto il capitalismo germanico a investire nella ricerca, nell’innovazione, nella qualità, nell’ambiente. È l’unico modello serio che rappresenta l’alternativa alla “via cinese” verso la globalizzazione; un modello forte che dimostra come si possa competere puntando su più regole, e non in una corsa al ribasso per inseguire “Cindia” (Cina e India) svuotando le nostre conquiste sociali e civili. Negli USA e in Gran Bretagna, dall’avvento al governo di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher negli anni ’80, ha inizio uno degli atti fondanti del progetto di una certa destra liberista (dalla Scuola di Chicago sino al “Tea Party Movement” di questi ultimi anni): l’adozione di normative e provvedimenti antisindacali (ad esempio vietando il reclutamento di aderenti nelle fabbriche). È l’inizio di una crescita esponenziale delle disparità e disuguaglianze sociali che si riscontrano oggi negli USA, segnatamente dopo la crisi finanziaria del 2008, quando si comprende o crolla il mito e la giustificazione ideologica della “vita a credito” (al di sopra dei propri reali mezzi). Secondo l’indice Gini, che misura le diseguaglianze sociali, l’America ha un livello di diseguaglianze sociali simile al Messico e alle Filippine. Una delle cause è lo “svuotamento” del ceto medio, risucchiato verso il basso. Quindi andrebbe forse sfatato il mito americano, o del sogno americano, ancora spesso in voga da noi. All’operazione di schiacciamento dei sindacati negli USA si sono aggiunti alcuni altri fattori culturali che hanno agevolato una marginalizzazione dei poveri e woorking poors, dei disoccupati. Uno di questi è la disaffezione democratica alle urne che deriva dall’assenteismo dei neri, dei disoccupati e dei cittadini meno istruiti. Un fenomeno questo che purtroppo possiamo notare anche in crescita in Europa e nel nostro Paese. È qui che si coglie quanto sia grave l’assenza negli Stati Uniti di movimenti sociali che abbiano a portare avanti lotte sociali nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nei quartieri poveri. Un secondo fattore culturale è quello probabilmente di associare l’attività sindacale al socialismo che sappiamo negli Stati Uniti ha sempre trovato fervidi avversari dimenticando che invece in Europa l’attività sindacale è un frutto delle socialdemocrazie, che è altra cosa! Un terzo fattore culturale, accresciutosi negli ultimi trent’anni, è quello di misurare le persone in base alla loro ricchezza e di ridurre la dignità a coloro meno fortunati i quali vengono così maggiormente emarginati invece di essere reintegrati. A un certo punto è circolata l’idea che si potesse edificare un nuovo modello di società progressista senza sindacati, un altro modo di organizzarsi collettivamente puntando sulla società civile, su forme di lotta tipiche dei colletti bianchi, dell’economia postindustriale. Quello che si perdeva dal lato dei diritti dei lavoratori, lo si riconquistava come cittadini-consumatori. Non è andata così! L’economia si è adoperata nel proporre prodotti low cost e/o con grandi fusioni aziendali cercando di far abbassare i prezzi per i consumatori. Ciò avrebbe dovuto aumentare il potere d’acquisto a beneficio delle classi meno abbienti e del ceto medio. Se non che ne è derivata una qualità notevolmente inferiore dei prodotti e dei servizi (giudicate voi la qualità ad esempio dei voli low cost) oltre a una serie di licenziamenti e riduzioni salariali per centinaia di migliaia di posti di lavoro a fronte di bonus milionari per chi invece promuoveva queste iniziative (spesso anche a discapito dei piccoli azionisti). Risultato: nuovi oligopoli, minor potere d’acquisto per tutti quei nuovi disoccupati e quindi un antipasto di suicidio economico (come può sopravvivere l’economia di mercato se le imprese non hanno più mercato?). Certo le multinazionali continuano a generare profitti grazie alla globalizzazione e ai mercati emergenti, ma è un gioco a corto respiro poiché nel frattempo si rafforzano le aziende di questi Paesi, le quali non lasceranno alle multinazionali un facile accesso alle loro nuove ed emergenti classi medie. La crisi del 2008 presenta negli USA il proprio conto: 46,2 milioni di americani (circa il 15.1% della popolazione) vivono sotto la soglia di povertà (fissata a 22’113 dollari annui) e il loro potere d’acquisto è regredito per rapporto a quello di 30 anni orsono. La situazione non è molto diversa in alcuni Paesi UE (Grecia, Spagna,…). La pubblicità è l’anima del commercio, ma la bugia è l’anima della pubblicità. Perché siamo pronti ad attaccare una certa retorica politica mentre tolleriamo senza sdegno quanto certe imprese ci propinano tramite la pubblicità? Dove sta il paradiso del consumatore? E il vero progresso?

On. Avv. Matteo Quadranti, deputato in Gran Consiglio 

P.S. per gli amanti del cinema consiglio due film che trattano in modo intelligente di questioni sindacali e della crisi finanziaria: il film inglese “Made in Dagenham” e quello americano “The Company Men”, entrambi del 2010.