La scuola non basta

10 febbraio 2012 – Opinione Liberale, rubrica Ballate Maltesi

L’uguaglianza civile passa da lavoro e libertà

Spesso, a sinistra e a destra, si attribuiscono all’aula scolastica le più grandi virtù politiche. Studiando si combatterebbe la disoccupazione, le differenze sociali, si cementerebbero perfino valori nazionali. Ma l’istruzione da sola può veramente tutto questo? La domanda è retorica ma non inutile se si pensa che eminenti editorialisti e uomini politici ritengono la scuola come il vero ascensore sociale che permetterebbe a chi si trova in povertà, o quantomeno in una situazione di partenza svantaggiata, di uscirne. Purtroppo ciò non è sempre e automaticamente il caso. Basti pensare che molti laureati si ritrovano comunque in disoccupazione o assunti con salari insufficienti. Talvolta si parte dalla convinzione che il sistema scolastico debba produrre laureati a sufficienza per soddisfare la domanda di lavoratori altamente qualificati e che questa sia la misura adatta a ridurre le disuguaglianze sociali sempre più crescenti. Sul piano retorico, slogan come “Vantaggi sin dalla partenza”, “Pari opportunità di partenza”, “Nessun bambino lasciato indietro” funzionano a meraviglia. Sul piano politico, le cose non sono così nette. In primo luogo niente indica che sia possibile mettere tutti in condizioni di uguaglianza una volta varcate le porte della scuola. Studi svolti negli ultimi anni dimostrano che, anche prima di accedere agli asili nido, i bambini provenienti da ambienti disagiati presentano già un ritardo. Quando è efficace, la scuola impedisce che il divario si allarghi, ma raramente riesce a ridurlo. Degli studi dimostrerebbero che l’istruzione conta per il 15% nei risultati degli allievi; il loro ambiente socioeconomico per circa il 60%. Quindi, ricercare l’efficacia nella lotta contro gli effetti della povertà sulla scuola deve condurci a non limitarsi ai soli fattori legati all’aula e andare alle radici del problema: la questione socio-economica, la parte che maggiormente influisce sul percorso dello studente. Quindi per far riuscire meglio i bambini dalla scuola bisognerebbe farli uscire dalle condizioni di disagio socio-economico. Vi è tuttavia un secondo ostacolo che sbarra la strada che dovrebbe condurre pacificamente dall’eguaglianza scolastica all’eguaglianza socio-economica. Una volta ottenuta la formazione vi è infatti e comunque lo scoglio del mercato del lavoro nel quale inserirsi, indipendentemente dalla pagella e dal titolo di studio conseguito. E la natura di questo mercato non è senza conseguenze. Per quale tipo di lavori ci sarà più richiesta da qui a 6 anni in Svizzera, o in Ticino? Non credo ci si possa scostare molto in Ticino dai dati ad esempio raccolti in altri Paesi sviluppati quali ad esempio gli Stati Uniti che vedono la maggior richiesta d’impiego futura in professioni quali cassiere, commesso, cameriere, infermiere e impiegato d’ufficio. Il comune denominatore tra queste professioni è proprio l’assenza di necessità di una laurea. Uno studio statistico sul lavoro effettuato negli USA constata che da qui al 2018 solo un impiego su quattro richiederà una laurea universitaria. Ciò è importante perché indipendentemente dalla capacità – per lo meno ipotetica – di assicurare una vera eguaglianza delle opportunità nella scuola, resta molto probabile che la maggioranza dei salariati continuerà ad occupare posti di commesso, cameriere, muratore, idraulico, ecc… È infatti impensabile che questi mestieri scompaiano. Anzi, se si pensa al settore infermieristico, peraltro abbastanza ben retribuito, i posti di lavoro aumenteranno e non spetterà certo solo alla scuola fare in modo che questi siano occupati da personale indigeno piuttosto che frontaliero. In termini prettamente economici, non vi è quindi una ragione particolare perché si debba passare tutti per l’università. Questa ha senz’altro delle virtù, ci mancherebbe, ma esse sono diverse da quelle economiche. In questo contesto del mercato del lavoro, più educazione non condurrà necessariamente a salari migliori. Chi potrà insegnare alle buste paga ad avere qualche zero in più? In realtà sono proprio queste, le buste paga, ad allargare le diseguaglianze socio-economiche. La ricchezza si concentra alla sommità della piramide sociale – sempre più irta – perché ne diserta la base. Una sempre miglior scuola pubblica è certo un obiettivo da perseguire, ma non basta. Il mercato del lavoro è un gioco a somma zero: il numero di impieghi disponibili per i laureati non varia in funzione dell’istruzione della popolazione attiva. Probabilmente, concentrandosi solo sulle riforme atte a migliorare la scuola, si arrischia di dimenticare che c`è anche un’altra soluzione alla questione delle diseguaglianze: remunerare meglio gli impieghi mal pagati, riconoscendo il loro valore sociale, e non considerandoli solo come un mero costo. Se un inno all’educazione come “questione di diritti civili della nostra epoca” (cfr. discorso di Obama del 6 aprile 2011) è senz’altro condivisibile, vale comunque la pena ricordare che già nel 1963, mentre Martin Luther King pronunciava il suo famoso discorso “Io ho un sogno”, i manifestanti brandivano cartelli sui quali stava scritto “Lavoro e libertà”. Avevano capito che, nella lotta per l’uguaglianza civile, la questione sociale sarebbe stata cruciale: quanti posti di lavoro? Per quale paga? Per chi?

Matteo Quadranti