I figli della crisi e la cultura

24 marzo 2012 – La Regione Ticino

Il Sole24ore, noto giornale economico italiano, ha lanciato un dibattito nazionale pubblicando un “Manifesto per la Cultura” come grande cantiere per il rilancio e la crescita economica, sociale e politica dell’Italia, segnatamente postberlusconiana. La storia insegna, e deve farlo anche da noi, che le grandi crisi non passano mai senza lasciare cicatrici che cambiano i connotati di una Nazione. Le Repubblica di Weimar, l’America della Grande Depressione, l’Inverno del Malcontento della Gran Bretagna, la caduta finanziaria dell’Asia a fine anni Novanta, l’Argentina di dieci anni fa, sono stati punti di svolta nella vita di quei Paesi e di riflesso del mondo. Quando l’economia crolla, la società si rigenera e può farlo in meglio o in peggio. La crisi finanziaria può certamente avere effetti persistenti su diverse attitudini e mentalità. In particolare coloro che vivono questa situazione di choc si ritrovano ad un bivio. Un bivio che può spaventare soprattutto i figli di quest’ultima crisi che al timore per il proprio futuro possono o potrebbero reagire in modi divergenti. Possono sviluppare muscoli, diventare più rissosi o estremisti. O puntare ad un conservatorismo e nazionalismo, cullati nell’illusione che fuori dai nostri confini nulla debba cambiare contro la nostra volontà al fine di perpetrare dei miti quali quelli che ci sono stati inculcati negli ultimi 30 anni. Oppure potranno essere più umili – e pronti a riconoscere che cosa dobbiamo cambiare nella nostra convivenza civile ed economica per vivere meglio -, più attenti al lavoro e ai lavoratori, al risparmio (in contrapposizione al consumismo, alla speculazione, all’indebitamento) e magari anche al vicino e all’ambiente (con le sue risorse non illimitate). Dopo la crisi del 1929, sia in Germania che negli USA, esplose la disoccupazione e l’inflazione distruggendo soprattutto la classe media, dando così poi il segno ad un secolo intero. Se non si può tacere l’ascesa al potere di personaggi quali Hitler e Mussolini, va anche ricordato che il New Deal di Roosvelt diede al termine di “liberal” il senso che ha e deve avere ancora oggi: tollerante nella vita civile, aperto al mercato in economia, solidale socialmente. Gli Stati Uniti di allora e quelli di oggi, per affrontare la crisi investirono molto nella ricerca: se nel 1927 i lavoratori impiegati nella ricerca erano 6’700, nel 1940 erano passati a 27’000. Questa ricerca, unitamene a grandi investimenti pubblici (formazione, strade e ferrovie, ad esempio), gettarono le basi per il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. In questo senso, oltre al settore della ricerca sulle energie rinnovabili, sicuramente richiedente personale qualificato da formare, penso ai grossi investimenti infrastrutturali per la modernizzazione del trasporto pubblico, intermodale (per le merci) e passeggeri (per ridurre il traffico automobilistico). Quindi in periodi di crisi pare vi sia bisogno di investire da parte dell’Ente pubblico. E credo vi sia bisogno di tutelare la classe media che non solo costituisce la maggioranza: quella classe che aspira, con spirito d’iniziativa, a migliorare e consolidare la propria condizione e allo stesso tempo è vista quantomeno come punto di sereno arrivo da molti giovani.
Ma quella crisi, come ogni crisi, influenzò anche l’arte, la musica e la letteratura con scrittori quali Faulkner o Steinbeck. Lo psichiatra Vittorio Andreoli, nel suo recente libro “L’uomo di superficie” (Rizzoli), denuncia: “Abbiamo cancellato la speranza nei giovani. Viviamo in uno specchio deformato: cerchiamo solo potere e bellezza. Quello che appare è diventato ciò che si è. Viviamo da precari sull’orlo della bancarotta etica e economica. Ci vuole il coraggio di pochi ribelli per rompere la spirale di conformismo che sta appiattendo tutto. Ma servono spalle larghe e propensione al rischio”. Come se ne esce? Il suggerimento è quello di “ripartire dai fondamentali: cultura, giovani, ricerca, arte e conservazione, tutto ciò che è umano. Bisogna reimparare le tabelline della vita”. Tra chi ai nostri giovani propone un modello culturale del fare a pugni in un ring chiuso ai quattro lati e chi invece ha a cuore, per loro, la ricerca di modelli sostenibili di civiltà e convivenza, culturalmente avanzati, io sto con quest’ultimi. Mai come in una crisi il futuro, vicino e lontano, è nelle nostre mani. “La sola cosa di cui aver paura è la paura stessa” (F. D. Roosvelt).

Matteo Quadranti, gran consigliere PLR