Globalizzazione e popolo di Seattle

7 settembre 2001 – Corriere del Ticino

Tra i filosofi più letti oggi, oltre a Platone, v’è Sant’Agostino il quale in un passo del “Sermone 169” scrive: “Considerate che siamo viandanti. Voi dite: Che significato ha “camminare”? Lo dico in breve: “Progredire”[…] Fate progressi, esaminatevi sempre, senza inganno, senza adulazione, senza accarezzarvi. Nel tuo intimo infatti non c’è uno alla cui presenza ti debba vergognare o ti possa vantare. […]. Ti dispiaccia sempre ciò che sei, se vuoi guadagnare ciò che non sei. In realtà, dove ti sei compiaciuto di te, là sei rimasto. Se poi hai detto: Basta; sei addirittura perito. Aggiungi sempre, avanza sempre, progredisci sempre”.

Surge et ambula, alzati e cammina quindi. Una questione di non poco conto rimane quella di definire la meta di tale cammino, come percorrerlo, con quali mezzi, tutti insieme o ognuno per la sua strada. È il momento di allontanarci da noi stessi per poterci vedere in una prospettiva diversa, per vedere il mondo al di fuori della Caverna come suggeriscono Saramago e il mito di Platone. L’oramai famoso “Popolo di Seattle” – per lo più composto da giovani benchè non possa essere escluso qualche facinoroso istigatore di più vecchia anagrafe – è insorto e si è messo in cammino. Da una certa spontaneità e volatilità, ora il movimento sembra essersi dato una certa organizzazione. Dai rendiconti TV, l’immagine di questo “popolo” non ne esce particolarmente edificata ed edificante (non più d’altronde di quella che poteva essere l’immagine data dai primi movimenti bolscevichi e dai sessantottini agli occhi delle società “conservatrici” di allora; movimenti che bisogna riconoscere hanno poi modificato anche in bene la società nella quale si sono sviluppati). Tuttavia la tendenza è quella di stigmatizzare la parte visibile (oltranzista e fanatica) dell’iceberg, fingendo di non vedere e/o minimizzando le dimensioni nascoste del fenomeno. L’accortezza dei politici imporrebbe loro almeno di sondare, esaminare davvero la consistenza e la condivisione delle idee e forse delle utopie dei giovani “antiglobal” da parte di quella popolazione più vasta, più silenziosa o timida ma comunque sempre più astensionista è rifuggente la politica e i politici. Questi dovrebbero forse evitare di compiacersi, di mentire a se stessi come suggerisce Sant’Agostino, affermando che “già ci si sta occupando seriamente delle problematiche sollevate. Il fenomeno dell’astensionismo è citato nei dibattiti politici ma poi a risultati elettorali o referendari ottenuti, ciò che sembra rimanere e contare è l’aver ottenuto la maggioranza anche se poi questa è a mala pena rappresentativa del 30% della ‘popolazione. Se vi fosse da parte di certi governi una reale dimostrazione d’interesse seguita da decisioni concrete e operative (anche se non per forza nei termini completi auspicati, ci mancherebbe!) nei confronti delle tematiche ambientaliste, sociali, “terzomondiste” sollevate dal popolo di Seattle, verosimilmente tali fenomeni violenti non avrebbero motivo di esistere o sarebbero effettivamente da stigmatizzare come frangia violenta fine se stessa. Se i potenti aprissero più sovente “la porta delle petizioni” invece che restare piantonati di fronte alla “porta degli ossequi”, delle lodi da ricevere, allora anche le forzature del sistema, le spaccature tra vertici e base verrebbero a cadere.

In realtà, per fare un esempio tra altri, la politica americana di Bush non fa altro che esacerbare le posizioni andando in senso diametralmente opposto, dando ancor più l’immagine che a governare non é più la politica ma l’economia e in particolare quella delle multinazionali. Qualcuno sembra sorprendersi dell’ostilità dimostrata da queste “tute bianche” affermando che “la globalizzazione, non è un complotto ma un dato di fatto”, ormai “la globalizzazione è tutto”. Tale stupore mi riporta al pensiero di Sant’Agostino: è come dire “Basta, le cose stanno così, non si possono cambiare”, laddove ciò equivale a perire poiché viene a mancare qualsiasi nuovo progetto o ideologia a lungo termine per l’umanità mentre ci si lascia travolgere dagli eventi, dalla volatilità dei mercati, dalle briglie sciolte delle multinazionali, dalle scoperte scientifiche (belle o brutte, buone o cattive: concetti che richiederebbero un discorso morale ed etico che sembra sempre meno presente poiché soggiogato all’euforia e alla necessità di rendimento economico-scientifico). Il fatto che talune ideologie/utopie, quali il comunismo, siano crollate, non ci legittimano a restare con le mani in mano senza guardare ad un nuovo o migliore progetto per l’umanità, dal momento che non viviamo nel migliore dei mondi (illudersi che sia così sarebbe altrettanto utopico). Non si tratta di perseguire ingenuamente un desiderio fiabesco, naïf, il quale ben si distingue dall’utopia che di contro si è sempre fondata su una struttura razionale. In fondo non v’è una preclusione di principio nel credere alla possibilità di tramutare delle utopie in realtà. Basti vedere gli sviluppi della scienza e in particolare delle biotecnologie per comprendere come siamo pronti a credere all’uomo perfetto, sano, bello, imperituro senza porci più la domanda a sapere fino a che punto si tratti di “Science” o di “Science-Fiction”. Ma se siamo pronti a credere a tali utopie è anche perché mai più di oggi la scienza beneficia del supporto dell’economia, delle tecniche di comunicazione più costose pur di rendere tali ricerche scientifiche o utopie irrinunciabili e redditizie economicamente a breve termine.

Poche discipline scientifiche prevalgono oggi su discipline umanistiche quali la filosofia, la teologia, la letteratura, la storia. Anche la politica appare perplessa e impotente quando non è servile di fronte al “fatto compiuto” presentatogli dal modello scientifico-industriale. Si dovrà forse attendere che l’utopia del completo controllo sulla natura e sull’uomo prenda il sopravvento con conseguenze probabilmente catastrofiche, prima di comprendere i propri limiti.

Pur ammettendo che taluni fenomeni possono presentare delle forme degenerate (quali sono la violenza o la strumentalizzazione stessa dei giovani), i giovani, se non sono già stati precocemente maltrattati e spenti dalla vita, sono per natura idealisti, entusiasti, curiosi e colmi di volontà di dare un senso alla loro esistenza. Essi cercano uomini, idee, motivi d’ispirazione. Tale loro forza dev’essere per l’uomo maturo uno stimolo a non accettare l’inaccettabile. In questo senso la politica ma anche la letteratura e gli intellettuali debbono adoperarsi per convogliare questa forza giovane in un nuovo progetto per l’umanità che sappia ascoltarli, parlargli facendosi comprendere e stimolarli. Un progetto fondato sull’esempio, la coerenza e l’efficacia anche se di primo acchito possa apparire come utopico. La globalizzazione può essere anche un fenomeno diverso e migliore. Il compito del letterato è quello di “evocare presagi di bellezza per indurre in chi legge lo scontento dello stato presente; esercitare l’effetto socratico della torpedine; liberare il sogno”. L’intellettuale non può, se è tale, ritenere di aver vinto già tutte le battaglie della modernità avendo sollevato i problemi, evidenziato gli ideali, per lasciare poi ai tecnici il compito di trovare le soluzioni. Anche la postmodernità ha bisogno di intellettuali che non siano di apparato e ai quali i media dovrebbero dare più spazio per essere ascoltati. Il futuro non ci può riservare solo economia e tecnica, efficienza e organizzazione. Le generazioni future, se ascoltate ci chiedono anche dell’altro.

Referenze:

1) Il Sole 24 ore, 3 giugno 2001: “Sant’Agostino:l’altro è nell’io” di Giovanni Reale;

2) José Saramago, Il racconto dell’isola sconosciuta”, Einaudi;

3) Corriere della sera, 4 giugno 2001: “Protesta globale ragioni e torti” di Alberto Ronchey e “Scienziati, aspiranti redentori” di Hans Magnus Enzensberger

4) Rivista trimestrale di cultura della Svizzera italiana CENOBIO

4/ottobre-dicembre 2000: Atti del convegno di Locarno 13.11.1999 “Letteratura e politica”