Gli stranieri e il Comune

23 novembre 2012 – Opinione Liberale – Rubrica Ballate Maltesi

Perché estendere i diritti politici a livello comunale?

Questa “Ballata Maltese” si scosterà dalle altre. Voglio e devo cogliere questa occasione per spiegare le ragioni per le quali, a differenza del gruppo parlamentare, sostengo l’iniziativa che chiede la modifica dell’art. 28 della Costituzione cantonale dando facoltà ai singoli Comuni di scegliere, in piena autonomia, se concedere il diritto di voto e di eleggibilità in materia comunale alle persone residenti di nazionalità estera. Il Gran Consiglio nel 2010 respinse (non di molto) un’iniziativa del 2008 che, a differenza di questa, chiedeva l’introduzione generalizzata del diritto di voto e di eleggibilità ai residenti di nazionalità estera. Quella che voteremo la prossima settimana (che è del 2012) vuole che siano i Comuni stessi a decidere se conferire o meno i diritti politici ai propri cittadini stranieri limitatamente all’ambito comunale. Stéphane Hessel, eroe della resistenza francese e tra gli autori della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, nel suo manifesto “Indignatevi” rileva che “la storia è fatta da scontri successivi, è la presa in considerazione delle sfide… Viviamo in un’interconnettività come mai ne è esistita una…l’avvenire appartiene alla conciliazione delle culture”. La Svizzera, per la sua stessa vicenda storica, la pluralità sociale e linguistica che la contraddistingue, continua ad essere un laboratorio e un modello di convivenza e di integrazione. Certo è che negli ultimi 20 anni, in contrapposizione alla globalizzazione e ai conseguenti moti migratori, le singole comunità manifestato sempre più l’esigenza di recuperare le proprie radici culturali e far valere una propria identità. Da qui anche la nascita di movimenti quali la Lega e atteggiamenti protezionistici che, se esprimono bisogni autentici, al contempo denotano disagio e incapacità di adattarsi a quello che è già il mondo nuovo: il mondo del cosmopolitismo. Per quanto ci si voglia chiudere nei propri confini, oggi più di ieri, viviamo e vivremo in una società aperta come direbbe Karl Popper. L’identità poi non è mai un dato scontato e men che meno è incontaminata. Anche le istituzioni sono un riflesso del tempo e mutano con esso. Per svolgere al meglio i propri compiti, devono essere flessibili e in grado di adeguarsi col trasformarsi della società. Questo vale anche per i diritti politici: si pensi ai passaggi dal voto per censo al suffragio universale; dal voto ai soli patrizi a tutti i membri del Comune; al voto e all’eleggibilità anche per persone originarie di altri Cantoni; nel 1971 vengono riconosciuti i diritti politici anche alle donne; l’accesso a questi diritti è dato dai 18 anni. Come tutti i cambiamenti, anche questi hanno incontrato resistenze e opposizioni. Sfide e scontri. In Svizzera vi sono già altri Cantoni che, a condizioni variabili, hanno esteso questi diritti ai residenti stranieri: Giura, Neuchâtel, Vaud, Friborgo, Ginevra, Appenzello esterno, Grigioni, Basilea Città. Il Ticino non sarebbe solo. Più grande è la fetta di popolazione che partecipa alla democrazia, e più cresce l’autenticità della democrazia stessa. I diritti politici vanno limitati laddove sensato, ma estesi per quanto possibile. È buona cosa iniziare limitando questi diritti alle sole materie comunali, quelle cantonali essendo più strategiche per il Paese. Il Comune è anche il primo livello di appartenenza ad una comunità, quello dove si affrontano le questioni più vicine al territorio e alle persone che lo abitano. Anche i residenti stranieri pagano regolarmente tutta una serie di tributi allo Stato (imposte dirette e indirette, contributi sociali). Il motto “no taxation without representation”, che portò alla rivoluzione americana nel 1776 e che pone in relazione diretta democrazia, rappresentanza e fiscalità, è quindi applicabile anche alle nostre latitudini. La possibilità di contribuire al “bene comune” in maniera attiva e diretta, consolida il senso di appartenenza e la responsabilità individuale. La quasi totalità delle leggi si applicano anche ai residenti stranieri. Legare il diritto di voto al luogo di domicilio, piuttosto che alla nazionalità, appare logico. Chi si oppone alla concessione dei diritti politici a persone straniere ritiene che queste debbano “solo” seguire l’iter (spesso lungo e costoso) per ottenere la nazionalità. La concessione dei diritti politici all’intera popolazione residente è un’esigenza per una democrazia moderna. La Svizzera è in cima ai Paesi per capacità e politica dell’innovazione, seguita dalle democrazie Scandinave. Tra le condizioni quadro per la crescita, riconosciute anche da Economiesuisse, vi sono gli immigrati particolarmente qualificati che bisognerebbe attrarre e che non sono sicuramente fonte di problemi d’integrazione. Salvo fare un discorso elitario, che in materia di diritti politici e democratici sarebbe poco consono, concedere dei diritti a questi immigrati potrebbe essere un ulteriore incentivo per farli insediare da noi. A questi li concederemmo senza troppe difficoltà. Ma forse chi teme tale estensione di diritti politici ha in mente piuttosto gli stranieri che seppur residenti da 10 anni in un Comune sono di condizioni più modeste. Infine diversi Comuni faticano a trovare persone disposte a mettersi a disposizione della politica. I residenti stranieri aumenterebbero il numero di potenziali candidati e spronerebbero magari qualche ticinese in più a mettersi a disposizione. La modifica costituzionale necessiterà comunque un adeguamento delle leggi che preciseranno le condizioni richieste per l’ottenimento dei diritti politici (ad es. no di anni di residenza). Per queste ragioni ritengo che l’iniziativa costituisca un progresso nell’ambito dei diritti democratici, un segno di apertura e di coraggio, oltre che di realismo di fronte ad una società cosmopolita. È una sfida democratica che, un po’ alla Don Chisciotte, ho deciso di sostenere.

Matteo Quadranti