Democrazia malata dei suoi eccessi

19 aprile 2013 – Opinione Liberale Rubrica Ballate Maltesi

Politica contro antipolitica

La tirannide, quella dove i leader comanda, ha all’origine la dimenticanza di sé da parte del popolo. Nasce dalla degenerazione della democrazia e dall’abbandono di ruolo della “gente”. Nel mondo contemporaneo abbiamo ancora dittatori veri e propri ma alle nostre latitudini forme sinuose, opache di abbandono del potere a terzi vi sono già da tempo. Il popolo, la libertà e il progresso sono elementi costitutivi della democrazia, ma se accade che uno di essi si renda autonomo rispetto agli altri, sfuggendo a ogni tentativo di limitarne il ruolo e erigendosi a principio unico, eccoci di fronte al pericolo: populismo, ultraliberismo, messianismo o “leaderismo”. Lo sostiene ad esempio il filosofo Tzvetan Todorov nel suo ultimo libro “I nemici intimi della democrazia” o Geminello Preterossi in “La politica negata”. Ma lo scrive anche di recente Sergio Romano sul Corriere della Sera (7.4.13) in un pezzo dal titolo “Populisti per paura del nuovo”, laddove, ripercorrendo la storia, illustra perché il populismo sia una sindrome basata su due convinzioni: che il popolo sia depositario della verità e che sia allo stesso tempo vittima di raggiri, inganni,…evidentemente ad opera di altri, non di chi il populismo lo cavalca. Iniziamo dal leaderismo, il popolo si mette nelle mani di un Capo che all’inizio si accredita come figura rassicurante al di sopra di giochi meschini della politica – antipolitico, per la gente -, si mostra persona straordinaria, amichevole, alla mano, salvo poi fare di fatto i propri interessi (meschini e politici). Anche il progresso arrischia di degenerare quando è tutto incentrato sullo sviluppo economico, il consumo. Ovvero quando, per eccesso, rischia di essere una deviazione dal fine principale della società: l’economia non rappresentando il senso ultimo della vita umana. La libertà: anch’essa, se declinata in termini assoluti, comporta l’idea che l’individuo abbia solo diritti e non doveri. Prendendo ad esempio le tesi dei difensori della libertà di espressione illimitata, ebbene, questi ignorano la distinzione elementare tra potenti e sottomessi e il diritto ad una informazione e formazione corretta e onesta dei cittadini.
La politica dovrebbe avere più o meno queste funzioni in una società: ascoltare la gente (affermazione, o meglio ritornello, tanto giusta quanto stra-abusata negli ultimi anni), ma poi (e qui sta la differenza tra politica e antipolitica, tra partiti di persone serie e fanfaroni) si devono riformulare in proposte concrete e poi in leggi, i desideri, le richieste, le insofferenze e perfino gli sfoghi della gente. Ma nulla che abbia a che vedere con la politica vera dovrebbe legittimare, chi sta al governo, a sfruttare le paure (dell’altro, del nuovo,…). Un discorso politico fatto per la strada o al bar ha un’emotività fortissima, una irrazionalità più o meno comprensibile. Cosa fa allora di solito la politica? Cerca di interpretare gli umori, emotivi e irrazionali, per incanalarli in una ragionevolezza, in una strategia realistica e praticabile per farne seguire i programmi politici, i progetti politici, sociali e culturali. Questa politica può poi essere buona o cattiva se riesce o meno a trovare le soluzioni. La democrazia consiste quindi nell’incanalamento dell’irrazionalità. Il populismo, in questo senso, è antipolitico e antidemocratico poiché esso consiste nel rinvigorire volontariamente quell’emotività, quell’irrazionalità quasi fomentandola. La democrazia consiste, per chi è addetto al fuoco, nel tenerlo a bada, non nell’alimentarlo, altrimenti è guerra. La politica è razionalità, e non potrà essere altro nemmeno in futuro. La buona amministrazione del potere è quella delle forze pacate, che tendono l’orecchio ai tumulti ma non li ingrandiscono. L’irrazionalità si può quindi definire antipolitica, e questa però ha una funzione distruttiva e non costruttiva. È sotto gli occhi di tutti che le forze populiste, in auge negli ultimi 20 anni, al massimo hanno sostituito qualche potentato di altri partiti per sostituirvisi, hanno combattuto le cadreghe o gli appalti per aggiudicarsene di propri. E va anche bene. Se non che la vera politica dovrebbe essere altro: visioni, progetti, costruzione del futuro. E in questo campo, i populismi, negli ultimi decenni hanno solo demolito, non costruito. Anche guardando il piccolo orticello ticinese, a qualcuno pare che le cose vadano meglio in questo Paese dal 1990 a questa parte? La politica razionale dirà, a propria giustificazione: i problemi della società moderna sono divenuti più complessi, ed è un dato di fatto. L’antipolitica populista invece, semplicisticamente, affermerà: è tutta colpa degli altri (avversari, stranieri, verdi gialli e blu, io non ci gioco più!). Importante oggi è che il trend antipolitico non induca gli altri partiti a seguirlo. Questi devono trovare un proprio posizionamento comprensibile all’elettorato che lo deve mettere a fuoco e devono far ricordare le fondamenta della democrazia e del rispetto delle istituzioni. Dimenticare, letteralmente significa “far cadere dalla mente”, come la delegazione di Ulisse, nel libro IX dell’Odissea, che sbarcata sull’isola solitaria e sconosciuta dei Lotofagi, a furia di mangiare loto, si dimenticano di fare ritorno. Questo è il pericolo del popolo e della democrazia oggi: che ci si dimentichi di far ritorno, di riprendere coscienza di sé e del proprio ruolo lasciandolo in mano a politicanti. A Lugano come nel resto del Cantone.

Matteo Quadranti