Anime malate in occidente

21 Settembre 2012 – La Regione Ticino

Un miliardo di persone (circa un sesto dell’umanità secondo dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ) è sofferente psichicamente. Di questo miliardo, circa 600 milioni abitano i paesi industrializzati, dove gli uomini sono sempre meno “soggetti” della loro vita e sempre più “funzionali” all’economia e a quel mercato che concedono loro le condizioni per vivere ma non sempre una vera qualità di vita. In Occidente l’anima è quindi malata. Per reggere la qualità di vita che ci siamo costruiti spendiamo, in farmaci quali pillole antipanico, ansiolitici, antidepressivi o sonniferi, un costo sociale equivalente a quello impiegato per le malattie cardiovascolari e il doppio rispetto a quello richiesto per la cura del cancro, giusto per citare le malattie per cui si muore di più. Per la curare queste anime vi sono in Occidente schiere di: psichiatri, psicologi, psicoanalisti, preti, educatori, operatori sociali, medici di famiglia, omeopati, maghi/guaritori, praticanti di tecniche orientali, strutture di ricovero o assistenza che, a pagamento o mediante costi sopportati dalla Stato, cercano di ricostruire un senso alle loro vite. Un esercito di “operatori” che cerca di curare queste patologie. A questo si aggiunge la chimica che si compera in farmacia (per la gioia delle farmaceutiche) per stare passabilmente bene. La depressione è diventata la forma per eccellenza della sofferenza psichica. Nel rapporto tra individuo e società, la misura dell’individuo ideale è sempre più determinata dall’iniziativa, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. La depressione trae origine sempre più da un senso di insufficienza e di inadeguatezza per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le aspettative altrui, a partire dalle quali ciascuno misura il proprio valore. Questo mutamento strutturale della depressione ha fatto sì che i sintomi classici quali la tristezza, il senso di colpa, passassero in secondo piano per rapporto all’ansia, all’insonnia, all’inibizione, alla fatica di essere sé stessi e di stare al passo con quanto la società richiede. I nuovi farmaci antidepressivi entrano in collisione con i criteri di efficienza e di successo che la società odierna considera essenziali per definire la dignità e il nostro significato esistenziale. Oggi la depressione non è più una nevrosi, ma un fallimento nella capacità di spingere a tutto gas il possibile fino al limite dell’impossibile. Oggi è saltato il concetto di limite. In assenza di un limite il nostro vissuto è spesso di inadeguatezza, di ansia. Mediante le varie “emancipazioni” iniziate dagli anni Sessanta, durante i quali la parola d’ordine giovanile era: “tutto è possibile”, le libertà nei costumi fino ad allora sconosciute hanno iniziato a coniugarsi con un crescente benessere materiale. Conquistate le libertà personali – controbilanciate però dalle responsabilità individuali – si è poi passati all’eccesso d’individualismo fatto di: “ho ragione e faccio quello che voglio”, “non confronto le mie opinioni col vicino – col quale non voglio aver nulla da spartire – e soprattutto non le cambio o apparirò debole”, “voglio il macchinone e me lo compro col leasing e chi se ne frega se mi indebito”, “devo fare soldi e essere furbo, costi quel che costi … agli altri però”.
L’odierna depressione e la tossicodipendenza sono diventate “complementari”. L’individuo è quindi padrone di sé stesso ma al contempo paga il conto con la schiavitù della dipendenza. I farmaco/tossicodipendenti di 20/30 anni fa erano gli emarginati. Oggi essi sono spesso nascosti tra i più “conformisti e integrati” (tra cui anche manager o sportivi), per stare al passo coi ritmi. Mettendo a tacere il sintomo, gli psicofarmaci e le droghe inducono la persona a superare sé stesso, senza essere mai sé stesso, ma solo una risposta a quanto gli altri e la società chiedono. Alla società fa forse più comodo avere degli automi impersonali piuttosto che persone capaci di essere sé stesse, di riflettere sulle contraddizioni e su taluni condizionamenti pubblicitari o menzogne partitico/demagogiche. Paradossalmente nella società della comunicazione (Internet, Facebook, Twitter,..), ci troviamo di fronte ad una pubblica indifferenza. Il benessere materiale prevale sulla qualità di vita, che non sempre, e non più, dovrebbe misurarsi in soli termini di costi e benefici. Questa nostra società genera meno sorrisi, meno gioia di vivere, meno impegno sociale che non in realtà più “povere”. Per liberarci da questo nostro malessere, che non risparmia i giovani cresciuti nella cultura puramente economicistica degli ultimi 20/30 anni, dovremmo trovare soluzioni alle cause e non solo le ricette “chimiche” per alleviare le conseguenze. E chissà che forse i premi di cassa malati e un più efficiente uso dei soldi pubblici potrebbero riservarci positive sorprese per le nostre tasche e per i nostri rapporti affettivi e sociali.

Avv. Matteo Quadranti, Gran Consigliere PLR