Tecnologie, lavoro e progresso

dicembre 2013 – Progresso Sociale- Rivista Sindacati Indipendenti Ticinesi

Studi americani sul tema del lavoro e delle tecnologie mostrano trend non incoraggianti di cui dovremmo tener conto per non farci solo illudere dal mito che le tecnologie portano solo benessere e a beneficio di tutti. Negli Stati Uniti, in Europa e anche in Ticino vi è un forte rischio di scomparsa del ceto medio. Il Prof. Robert Reich (ex Ministro del Lavoro di Bill Clinton) denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle disuguaglianze che si è verificata negli Stati Uniti: un fossato tra ricchi e il resto della società che rischia in futuro di dividersi ulteriormente tra un ceto benestante e una società di massa a reddito medio-basso senza più nulla nel mezzo. L’economista Tyler Cowen– non ritenuto certo un progressista – disegna scenari allarmanti nei quali si allarga sempre più il divario tra il 10/15% della popolazione che, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato a dominare le macchine, vivrà in condizioni di grande benessere mentre gli altri dovranno svolgere lavori che le macchine non riescono a sostituire, e che in diverse parti del mondo non necessitano di qualifiche elevate e quindi sono pagate di conseguenza. E’ questo un destino al quale rassegnarsi o vi è possibilità di essere proattivi? Uno scenario cupo, che per fortuna altri analisti non condividono. Che tipo di risposte politiche possono essere elaborate, sempre ammesso che i Governi abbiano margini di manovra in un mondo dove i centri di potere stanno altrove? Fino a qualche tempo fa l’opinione prevalente era che le difficoltà fossero legale solo alla crisi finanziaria e alla globalizzazione. La tecnologia non aveva un ruolo centrale in questa analisi: la nuova economia digitale veniva vista come un fatto che da un lato crea problemi sociali quando i robot sostituiscono gli uomini, ma dall’altro aumenta l’efficienza del sistema, producendo nuove ricchezze e quindi maggiori occasioni di lavoro. Pian piano ci si è resi conto che, con il rapido sviluppo delle tecnologie, nei paesi industrializzati il motore della creazione di posti di lavoro si è inceppato. Le tecnologie digitali non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti. L’economista Noah Smith ha concentrato la sua attenzione sul cambiamento della distribuzione del reddito tra capitale e lavoro: “durante quasi tutta la storia moderna i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari, mentre il terzo rimanente è andato in dividenti, affitti e altri redditi da capitale”. Dal 2000, quindi della crisi del 2008, le cose sono cambiate: “la quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60%, mentre i redditi da capitale sono cresciuti”. La causa sta anche nella tecnologia. La nuova rivoluzione digitale riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, i lavoratori diventano “obsoleti”. I più moderni computers capaci di sostituire anche lavoratori con mansioni piuttosto complesse, ma con una elevata componente di routine, lasciano all’uomo sostanzialmente due tipi di mestiere: (1) i lavori astratti, quelli che richiedono intuito, creatività, capacità di persuadere e risolvere problemi. Sono i lavori di manager, scienziati, medici, ingegneri, e liberi professionisti; (2) i lavori manuali che richiedono interazione, capacità di adattamento e osservazioni, saper riconoscere un linguaggio: preparare un pasto, guidare un camion in città, pulire una stanza d’albergo. Questi lavori non vengono sostituiti dai computer ma non richiedono grosse competenze e sono pagati poco. Un recente studio, che ha esaminato 72 settori produttivi, conclude che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47%) verrà prima o poi sostituito dalle macchine. Alcuni sono più ottimisti e pensano che il mercato del lavoro si allargherà a nuove attività che oggi non immaginiamo. Per ora sono gli economisti che tentano di individuare soluzioni. Quelli di idee progressiste ritengono che un aumento delle disparità sia insostenibile alla lunga e temono per la tenuta delle democrazie. Altri prevedono un adattamento all’ineluttabile in un mondo che sarà sempre più conservatore. Alcuni incitano a rendere il maggior numero possibile di lavoratori imprenditori di sé stessi e immaginano un meccanismo di compensazione del trasferimento di ricchezza dalla manodopera alle imprese: un portafoglio di azioni di società quotate da consegnare ad ogni cittadino al compimento del 18° anno. Una sorta di polizza assicurativa per proteggere l’individuo dall’impatto dei robot sul mercato del lavoro o quale paracadute. Altri ancora pensano ad uno sforzo per estendere il raggio dei mestieri che richiedono intuito e discrete capacità professionali – dall’infermiera capace anche di aggiornare la terapia di un diabetico, agli idraulici e gli elettricisti capaci di ridisegnare una rete – in modo da ricreare uno spazio intermedio per i “nuovi artigiani”. Infine taluni pensano ad una ridistribuzione della ricchezza prodotta dalla civiltà di Big Data: i grandi gruppi dell’economia digitale, che mettono da parte ricchezze immense grazie alla loro capacità di accumulare e analizzare un volume enorme di informazioni, dovrebbero effettuare micropagamenti a tutti noi quando utilizzano i dati che immettiamo in rete. Ad ogni modo si apre un cantiere di ri-orientamento dei percorsi formativi. La tecnica ci risolve molti problemi tranne uno che non è tecnico ma morale: il buon uso della tecnica.