Siamo tutti un po’ Robinson

La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe è il capostipite del romanzo di avventura che il 25 aprile scorso ha festeggiato 300 anni essendo stato pubblicato nel 1719. Scritto da Daniel Defoe, anticipò diversi temi dell’Illuminismo, del razionalismo, della nascente etica borghese. Robinson ci rappresenta nel nostro modo di comportarci verso la natura e la proprietà delle cose. I messaggi nella bottiglia inviatici da Robinson sono utili ancora oggi. Intanto era figlio di un tedesco emigrato in Inghilterra che lo voleva avvocato, degno rappresentante della borghesia. Ribelle, come tanti giovani, decise invece di darsi alla vita di mare. Fatto schiavo a seguito di un primo viaggio, fuggito, torna in mare per andare oltreatlantico stavolta su una nave che invece gli schiavi li cattura ma al largo del Venezuela la nave affonda e unico sopravvissuto vivrà 28 anni su un’isola sperduta di cui 12 in solitudine e gli altri con Venerdì, un selvaggio ovviamente “di colore” che sebbene “viga” allora come ora il primatismo bianco, lo scrittore Dafoe descrive come personaggio da cui Robinson imparerà parecchio.

Robinson si costruisce subito: un fortino in cui poter stare e mettere al sicuro sé stesso e le sue cose (perché tutto è misurabile, accumulabile e moltiplicabile) e una Croce su cui inciderà ogni giorno una tacca (perché anche il tempo è oggetto di calcolo); comincia a coltivare la terra e solo di fronte alla natura – che va piegata alle proprie necessità e all’antropocentrismo della Bibbia che lo portano a legittimare la sua presa di possesso sulle cose che trova – designa e registra come “mie” (la mia capra, la mia noce di cocco, …). Essendo solo nessuno gli può togliere ciò che è presente in natura o che egli fabbrica, ma Robinson ha la necessità di rivendicare, pro futuro, il proprio diritto di proprietà. Forse prevedeva l’epoca moderna in cui gli uomini si realizzano, allargano il proprio “io” e si valutano in forza del numero di beni che possiedono?

Salvato grazie ad una nave di passaggio, Robinson ritorna in Europa e scopre che per eredità di famiglia è diventato un uomo ricco. Mentre l’educazione dell’epoca esaltasse come valori borghesi: laboriosità, spirito di iniziativa, intelligenza, intraprendenza perché bisognava contare sulle proprie forze, sul proprio coraggio e sulla propria intelligenza, oggi le ricchezze spesso si acquisiscono per mera successione (come una volta la nobiltà) e non per meriti, si creano talvolta per scaltrezza, sfruttamento del lavoro a basso costo, speculazione finanziaria. L’illuminismo inglese si affidava alla ragione e al lavoro (quello festeggiato qualche giorno fa) che era il mezzo con cui l’uomo diventa proprietario legittimo delle cose che crea o che cura. Ma Robinson ci insegna alche altro poiché per lui esiste comunque un limite all’accumulo dei beni. Limite segnato dal loro valore d’uso, dalla funzione che svolgono per soddisfare necessità (dei più) e moderati piaceri (non lussi per pochi). Limite rispettato anche attraverso lo scambio con i beni prodotti da altri, dato che il lavoro è un’attività prevalentemente sociale tanto che Marx lo esaminò in chiave sociologica e si fece ispirare da questo libro per la stesura de “Il Capitale”. Robinson ci mette poi in guardia dal ritmo mozzafiato del consumismo che ci porta ad inventare cose nuove e rottamare (inquinando) le vecchie. La proprietà è un concetto giuridico ma anche psicologico. Speriamo che quei messaggi non siano oggi inseriti in quelle bottiglie di plastica pescate nei mari invece del pesce.

 

Matteo Quadranti