Professioni del futuro e formazione

5 febbraio 2014 – La Regione Ticino

L’art. 1 della Legge federale sulla formazione professionale prevede che gli Enti pubblici e le organizzazioni del mondo del lavoro si adoperino, collaborando, per garantire un’offerta sufficiente nel settore della formazione professionale, segnatamente nei settori d’avvenire. La collaborazione prevista non sancisce di principio l’esclusività della formazione professionale da parte dello Stato tant`è che ad es. l’art. 10 della Legge cantonale sulle scuole professionali riconosce le scuole private professionali, realtà verosimilmente più presenti in Svizzera interna che non in Ticino. Mi permetto sollevare alcuni quesiti nel campo della formazione: il sistema attuale di formazione, e orientamento professionale in particolare, conoscono quali saranno o potranno essere le professioni del futuro? Questo sistema garantisce un’offerta formativa adeguata nei settori professionali dell’avvenire? Chi può formare meglio i nostri giovani nei nuovi mestieri? Lo Stato (tramite la Divisione della formazione professionale e le varie scuole) oppure le associazioni e i settori professionali privati? Allorquando leggo che ad esempio AITI-Associazione degli industriali ticinesi negli ultimi anni ha organizzato varie iniziative quali la giornata con tutti gli orientatori scolastici e professionali del Cantone, “finalizzata ad aumentare il grado di conoscenza reciproco fra il mondo della professione e quello della scuola ”, oppure ancora di recente delle giornate di porte aperte presso industrie per mostrare ai giovani le professioni dell’industria, mi chiedo se da qualche parte non vi sia uno scollamento tra il mondo scolastico e dell’orientamento e il mondo di coloro che poi assumono i nostri giovani. Sono i ragazzi, i genitori o gli orientatori, risp. i docenti che non conoscono a sufficienza queste professioni, nuove o più recenti? Ll’ingranaggio può o deve essere meglio oliato? Il Fondo per la formazione professionale al quale contribuiscono pure i datori di lavoro, così come pensato e utilizzato oggi va bene o è pensabile che lo Stato conceda e deleghi più formazione professionale al settore privato? Se per la formazione in generale ritengo che la stessa debba restare in mano allo Stato, per la formazione professionale non escludo che forse il privato possa essere più reattivo e tempestivo nell’individuare i cambiamenti in atto nel mondo delle professioni. Questo potrebbe essere uno dei punti della Revisione dei compiti dello Stato di cui pure alla Road Map.
Come è accaduto già dopo la rivoluzione industriale, anche con la rivoluzione digitale e dell’hi-tech, prima si perdono posti di lavoro, in particolare quelli che le macchine e ora il supercomputing, la biorobotica, l’ubiquità dei Big Data fanno scomparire. La realtà non è quella della favola bella di una distruzione creatrice. Ci attende una fase di adattamento.
Che tipo di risposte politiche possono essere date? Durante quasi tutta la storia moderna i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari, mentre il terzo rimanente è andato in dividenti, affitti e altri redditi da capitale. Al momento i vantaggi dell’high tech vanno soprattutto al capitale e ad una élite del lavoro, creando nuove ineguaglianze. Il motore della creazione di posti di lavoro si è inceppato, e non solo a causa della crisi finanziaria, della globalizzazione e dei frontalieri. La nuova rivoluzione digitale riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, i lavoratori diventano “obsoleti”. Un recente studio conclude che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo verrà prima o poi sostituito dalle macchine. Non sono più o solo cancellati i lavori di routine, ripetitivi, ma anche funzioni e professioni che richiedevano un certo lavoro intellettuale. I progressi recenti dei supercomputer hanno infatti invaso la sfera dell’intelligenza umana. I bancomat hanno sostituito impiegati bancari. Nei supermercati troviamo sensori, codici a barre e sistemi di pagamento automatizzati che sostituiscono le cassiere. Nuovi modelli di tosaerba automatizzati sostituiscono i giardinieri così come nuovi robot, capaci di pulire ogni angolo di uno stabilimento, riducono il personale di pulizia. Vi sono prototipi di barman automatico in grado di preparare il nostro cocktail preferito. Il Pentagono vuol sostituire i soldati con i robot e Kibo, il robottino che intrattiene gli astronauti durante le missioni, potrebbe un giorno sostituire la baby sitter o la badante. Il tutto può farci inorridire, ma 50 anni fa non avremmo nemmeno pensato di salire su un treno senza nessuno al comando. La rivoluzione industriale non fu solo sostituzione di muscoli con motori, ma anche reinvenzione del lavoro. Le nuove tecnologie faranno altrettanto? Probabilmente. Nuove professioni arriveranno, ma quali e quando? Come prepararle? Sono esplose le start-up che produrranno cose di cui oggi non sappiamo di aver bisogno come ieri i videogiochi, i tablet e le app. Autorevoli riviste e professori (cfr. Brynjolfsson e McAfee, The Second Machine Age, docenti del MIT) per contrastare la disoccupazione, ritengono che bisogna ripensare i sistemi educativi e formativi per potenziare il pensiero critico e creativo, nonché l’empatia, ovvero quello che i PC non possono rimpiazzare, dislocando lo sforzo sull’intero ciclo didattico sin dall’asilo, per migliorare le abilità cognitive e sociali fin dai primi anni di vita. Il lavoro di domani non potrà che essere quello di creare conoscenza, che sarà usata da macchine, e di insegnare alle macchine come usarla. Alcuni ritengono vadano estese le capacità professionali in alcuni mestieri – dall’infermiera capace anche di aggiornare la terapia di un diabetico, agli idraulici e gli elettricisti capaci di ridisegnare una rete – in modo da ricreare uno spazio intermedio per i “nuovi artigiani”. La strada non è quella di opporsi al cambiamento, ma di accompagnarlo.

Matteo Quadranti, deputato PLR