Poteri e Lavoro

Ottobre 2011 – Progresso sociale

Mentre ci si accalca a trovare rimedi tecnici, di breve termine, alla crisi finanziaria e al rapporto euro-franco, ci vuole una presa di coscienza politica per ridare, a medio/lungo termine, un sogno e una speranza alle generazioni di ventenni e trentenni. Dalla crisi del 2008 non sono stati tratti insegnamenti. Dobbiamo tornare a dare valore e orgoglio al lavoro, umanità e moralità alla finanza, invertire la tendenza degli ultimi 30 anni. Passare da un modello di sviluppo basato sui consumi, e sull’indebitamento, ad un modello fondato su: conoscenza, qualità delle produzioni, centralità del lavoro. Il sogno spezzato dei giovani inglesi all’origine dei recenti disordini dev’essere un campanello d’allarme anche da noi. La tolleranza zero del giovane premier Cameron è una soluzione vecchia, miope e fallimentare. Se quei giovani inglesi rappresentano una classe operaia, priva di lavoro, il modello capitalistico degli ultimi 30 anni ha portato solo ad una maggior divaricazione tra pochi ricchi sempre più ricchi e un numero sempre crescente di persone che fatica ad arrivare alla fine del mese e con meno prospettive. Un elemento che si ripercuote anche sulla ricchezza e i bilanci degli Stati. Le manifestazioni di massa recenti hanno radici comuni: diseguaglianze, disoccupazione, povertà. Le aziende e banche, fatte di uomini, stanno tagliando posti di lavoro o chiedono di ridurre i costi del lavoro. Ma tagliare posti di lavoro per mantenere spesso profitti miliardari e competitività riduce il reddito dei lavoratori, aumenta i costi a carico delle Casse disoccupazione, diminuisce la domanda di consumo finale. Bisogna abbandonare il sistema anglosassone del laissez-faire e creare posti di lavoro, anche con stimoli fiscali; consentire ai lavoratori di competere, essere flessibili e vivere bene in una economia globalizzata; applicare una tassazione progressiva maggiore; aiutare le aziende davvero in difficoltà; ci vuole una regolamentazione più severa per combattere una finanza fuori controllo. Le alternative sono stagnazione, depressione, guerre valutarie e commerciali, controlli sui capitali, crisi finanziarie, insolvenze sovrane, instabilità sociale e politica. Lavorare è il mezzo privilegiato di crescita dell’individuo, la base della libertà individuale e dello sviluppo civile delle comunità. La crisi economica ha reso il lavoro sempre meno disponibile, qualificato e retribuito. Esso ha perso il suo ruolo nella società a causa dei progressi della tecnologia e alla globalizzazione. La prima ha privato d’importanza vari lavori meccanici e artigianali. La seconda, pur allargando il mercato potenziale, ha reso la competizione per il lavoro più agguerrita. I Paesi con manodopera a basso costo (BRIC: Brasile, Russia, India e Cina) dettano domanda e offerta di lavoro globale. Oggi tutti i Paesi del Globo sono praticamente dei mercati e quindi dei produttori. Non c’è solo l’Occidente. Con tutta la buona volontà non potremo comprimere i costi al livello cinese e la Cina non vedrà aumentare il costi della sua manodopera se non tra decenni. Dobbiamo investire nella qualità della formazione, dei prodotti e dei servizi (innovazioni, energie rinnovabili per ridurre la dipendenza da Paesi petroliferi e mantenere capitali in Svizzera, knowledge economy, scienze della vita , biotecnologie). Il lavoro che ha più conoscenze innalza, economicamente, il valore aggiunto del prodotto. Riportando il lavoro al centro della vita delle persone, aumenterà il suo valore culturale, sociale e il suo peso nella democrazia come garante della libertà. Il nostro modello sociale è fatto di diritti e doveri, di responsabilità e libertà. La qualità della democrazia dipende dalla capacità di prendere decisioni che riguardano tutti, nell’interesse di tutti. Si tratta di equilibrare gli interessi forti e gli interessi generali. Se il lavoro è forte economicamente lo è anche socialmente, esso è in grado di equilibrare quegli interessi. Se è debole, gli interessi forti tendono ad appropriarsi del legislatore e a ottenere decisioni nell’interesse particolare. I poteri forti sono il problema della politica. Ci vogliono quindi cultura della qualità e coesione sociale partendo dal riequilibrio nella distribuzione della ricchezza prodotta, o quanto meno dal riportare certi redditi stratosferici entro proporzioni ragionevoli. Una società in cui la ricchezza è meglio ridistribuita ha una crescita più sostenibile e riduce i conflitti sociali. La ricchezza concentrata diventa finanza (e speculazione), quella distribuita é economia. Chi ha uno stipendio medio lo spende e muove l’economia (quella locale in primis), non si mette a giocare in borsa ne a incrementare il proprio patrimonio. Chi guadagna decine di milioni all’anno, quasi mai porta la responsabilità sociale dei licenziamenti che decide per mantenere in essere quei profitti da cui si generano i suoi redditi e bonus. Al pari, quasi mai tali redditi corrispondono all’entità dei rischi assunti, i quali spesso ricadono sulla massa di singoli (cittadini, piccoli risparmiatori), sullo Stato. Non vi è principio di causalità adeguata tra cause (provocate da pochi) ed effetti (subiti dai più, e deboli). Siamo di fronte ad una crisi da eccesso di rischio.