Educare alla fraternità

18 marzo 2011 – Opinione Liberale, mia rubrica BALLATE MALTESI

Rivalutare la tolleranza come virtù liberale.

I bambini sono la versione miniatura degli adulti. Da essi imparano cosa si deve dire per darsi importanza e cosa si deve tacere per non fare brutta figura. La loro crescita è affidata a questi processi di imitazione, per cui essi dicono ciò che hanno sentito dire dagli adulti. Se vogliamo apportare dei correttivi in vista di una società futura più fraterna, e quindi più sicura, dobbiamo iniziare dai bambini, ora, non domani. I fenomeni migratori fanno parte della storia degli uomini e non sono solo un fatto recente. Gli stessi ticinesi furono popolo di emigrazione quando si trattò di uscire dalla miseria. I nostri bisnonni e i nostri nonni varcarono le frontiere, non per ragioni di persecuzione politica, ma per sfamarsi e sfamare le famiglie che magari restavano in Ticino. Alcuni hanno avuto fortuna, altri no. Alcuni sono rientrati in Ticino contribuendo al suo benessere, altri sono rimasti nel loro Paese d’emigrazione e vi si sono integrati. Se nel mondo si celebrano giornate della memoria per lo sterminio nazista degli ebrei, non dovremmo neppure dimenticare la nostra storia, da dove veniamo e perché siamo, oggi, quello che siamo diventati. Per effetto dell’immigrazione, siamo diventati una società multietnica, per vivere nella quale è necessario ampliare il concetto di uomo, e imparare quella prima virtù della convivenza che si chiama tolleranza. Questa virtù venne formulata con una delle tre parole simbolo della Rivoluzione francese: fraternité, la quale ha avuto decisamente meno fortuna delle altre due: égalité e liberté. Sull’uguaglianza e sulla libertà sono nati comunismo e capitalismo, sulla fraternità non è ancora nato un bel niente. Ma senza fraternità il capitalismo non può che ritornare a essere selvaggio: a favore dei più forti, dei migliori. Senza fraternità il comunismo non può trovare altra espressione se non quella fallimentare che storicamente ha avuto. È forse venuto il momento storico per cercare di costruire qualcosa di nuovo partendo da questa virtù, invece che richiuderla nel cassetto per lasciar invece circolare caoticamente l’intolleranza.
La politica mescolata all’etica dei valori poc’anzi citati, arrischia oggigiorno di svilire l’uno e l’altro termine. Tanto più se sull’altare del maggior consenso elettorale, del risparmio e del protezionismo, certi partiti sono pronti a sacrificare la “svizzeritudine” che è stata composta sino a pochi anni fa anche della tradizione di Paese depositario di valori universali e ispiratore di movimenti per il rafforzamento dei diritti dell’uomo. Sentirsi svizzeri e ticinesi, non è quindi solo potersi tenere il fucile a domicilio, ma anche essere tolleranti; è ricordarsi che anni addietro siamo stati noi Paese di emigrazione.
Per la cultura della fraternità, le religioni non servono granché. Per quanto predichino tutte l’amore per il prossimo, non riescono a essere del tutto credibili perché: 1) le guerre fondate sulla religione, incluse quelle in corso ancora oggi, sono una costante nella storia degli uomini, soprattutto quando la religione viene usata solo come mezzo o pretesto per raggiungere più potere, 2) chi ritiene di possedere la verità assoluta non può considerare gli altri diversamente che come fuori dalla “retta via”, 3) dove va a finire la libertà se un gruppo si arroga il diritto, o il potere, di suddividere i cittadini in “buoni/migliori” (da privilegiare) e “cattivi/perdenti” (da lasciare a sé stessi), sulla base di convinzioni personali?
La famiglia è quella che è e, anche se è aperta, è una struttura fondamentalmente chiusa, perché ha come vincolo unificante il sangue, non la cultura.
Tra religione, famiglia e scuola, una lezione sulla fraternità può venire solo dalla scuola. E quando dico scuola intendo la scuola pubblica che, per il solo fatto di accogliere sia gli svizzeri, sia quelli provenienti da altri paesi, i ricchi e insieme i poveri, i bianchi e quelli di colore, gli abili e i disabili, è la più idonea a diventare quel “laboratorio” in cui può nascere e fiorire quella cultura della fraternità a cui solamente gli uomini possono riferirsi, non solo per un loro salto di qualità nel regime della convivenza, in un mondo che i mezzi di comunicazione e di trasporto hanno trasformato in un unico vicinato.
Dal documento della SUPSI “Scuola a tutto campo” sul monitoraggio del sistema educativo ticinese, si legge che la popolazione scolastica straniera oggi corrisponde al 27% del totale (era il 32% nel 1977). La percentuale più bassa per rapporto agli altri cantoni di frontiera (GE,BS,VD,SG). Questo 27%, si compone a sua volta, per il 41% di allievi stranieri di origine italiana, il 23% provenienti dalla Ex-Jugoslavia, il 14 % dai Paesi Iberici, il 3 % da Paesi dell’Europa centro settentrionale, il 2 % dalla Turchia e il 16% residuo da migranti provenienti dai più disparati Paesi. Pertanto la nostra scuola, con oltre l’85% di allievi ticinesi o di cultura italiana è sicuramente un buon laboratorio di integrazione per la piccola minoranza straniera di altre culture. Essa è quindi un buon investimento nella interculturalità (che altra cosa dalla multiculturalità), per la pace sociale, per la non emarginazione, per le pari opportunità e infine per la sicurezza.
Il liberale radicale crea il dialogo, mira a unire gli uomini, non a separarli. Non possiamo, in nome della risoluzione di problemi di breve termine, dimenticare del tutto i valori che hanno fatto la storia del partito e del Paese. Salvo voler tradire noi stessi, il senso e la tradizione democratica. Almeno sull’integrazione dei giovani stranieri giochiamo il nostro futuro.

Avv. Matteo Quadranti, candidato PLR al Consiglio di Stato e al Gran Consiglio