Alle origini del diritto del lavoro: appunti

8 settembre 2014 – PROGRESSO SOCIALE- Sindacati Indipendenti Ticinesi

Le origini del cosiddetto “diritto del lavoro” sono in realtà recenti, anche se quel complesso di energie fisiche e intellettuali che un soggetto spende nella vita quotidiana per garantirsi la sopravvivenza – il lavoro, appunto – è presenza che si perde nella notte dei tempi. Si ha un diritto del lavoro, quando il fatto “lavoro” – autonomo o dipendente – viene considerato in una sua specificità etica e sociale, per cui giuridica: il che avviene solo nel XIX secolo. Il Codice Napoleone, seguito poi dai vari Codici civili europei, risolve il problema del lavoro subordinato e autonomo grazie allo schema tecnico-giuridico della locazione, in realtà soffocandolo o vanificandolo. Mi spiego: in realtà si tratta di una strategia del diritto borghese che riesuma antichi schemi giuridici del diritto romano. 1800 anni di storia sembrano essere passati invano quando si leggono gli art. 1708 e segg. del Code civil il quale indicava due tipi di locazione: il primo è quello che conosciamo ancora oggi, l’altro era quello con cui il proprietario della propria forza-lavoro la offriva in godimento a un altro contro la prestazione di una mercede. La differenza tra i due contratti di locazione era che nel secondo il locatore era di fatto il contraente debole, ovvero il lavoratore, e ciò che viene locato – il lavoro – è semplicemente una cosa, che è l’esclusivo patrimonio, la sola proprietà dell’altrimenti nullatenente. La strategia dei Romani e dei moderni borghesi era lampante: visione materialistica del lavoro, sua mercificazione, separazione tra lavoro e personalità del lavoratore a cui è tolta ogni connotazione etica e sociale. Nei codici borghesi non si parlava di contratto di lavoro. Vi era la beffa di nobilitare il lavoratore come proprietario, anche se si trattava della miserevole proprietà delle proprie energie. La prospettiva non cambia di molto nemmeno nell’ultimo Codice civile del XIX secolo, ovvero il BGB germanico. Anche se in questo codice non si parla più di locazione ma di contratto di servizio, la sostanza non muta. Un cambio di atteggiamento si profila a fine Ottocento con i moti, anche violenti, del quarto stato e le prime capitolazioni del potere borghese concretizzate nella crescente legislazione sociale dovuta ad una rinnovata coscienza di giovani giuristi portatori di una visione solidaristica. Il diritto del lavoro nasce qui e al di fuori delle genericità dei Codici civili. Nasce nella prassi quotidiana delle condizioni di lavoratori che riescono sempre più a imporsi e in una riflessione consapevole della scienza giuridica che cerca di definire le avvenute conquiste sociali. Il diritto del lavoro ha pertanto una matrice extra-legislativa. Due erano stati gli apporti del solidarismo giuridico: (1) l’affermata inidoneità della “locazione” come tipologia atta a descrivere la complessità e la ricchezza del rapporto di lavoro; (2) la configurazione accanto all’io individuale, di un io collettivo che dava prestigio e protagonismo al lavoratore nel contesto sociale. Un passo avanti si farà ad inizio Novecento grazie al giurista tedesco Philipp Lotmar (1850-1922; “Contratto di lavoro nel diritto privato dell’Impero tedesco” del 1902). Il Reich era una evolutissima società industriale e Lotmar, attento osservatore, fu portato a valorizzare, accanto alle fonti tradizionali, contratti collettivi, ordinanze sindacali, decisioni di collegi arbitrali formati da giudici non togati, indagini di ispettorati del lavoro, inchieste tra lavoratori. Il risultato fu quello di un corpo vivente che si stava liberando dal concetto di mero e ristretto scambio di prestazioni (lavoro-retribuzione). Due i punti fermi conquistati: (1) il contratto di lavoro non poteva più essere astratto dalle effettive situazioni socio-economiche (faktische Umwelt) in cui doveva operare; (2) il contratto di lavoro non poteva più essere un relazione anonima, né il lavoro poteva più essere ridotto a concetto patrimoniale. Il lavoro è la stessa persona in azione, che impegna in esso non una dimensione patrimoniale ma squisitamente personale; esso è parte essenziale della vita di quel soggetto in carne ed ossa che è il lavoratore. La tipicità del contratto sta, deve stare, in questo rapporto personalissimo. Con Hugo Sinzheimer (altro giurista tedesco, 1875-1945) il contratto di lavoro si proietta verso il futuro anche grazie al nuovo clima culturale del giusliberismo tedesco e alla sociologia del diritto di Ehrlich che, sintetizzando, porta dal legalismo ad un “diritto vivente” espresso direttamente dalle forze sociali al di là degli apparati statali ma che non possiede una minore giuridicità. Il contratto collettivo diventa la manifestazione dell’autonomia (produttiva di norme, auto-normazione) dei gruppi sociali (Associazioni padronali e Associazioni professionali dei lavoratori/Sindacati). Il diritto del lavoro non è più solo codificato dallo Stato ma diventa anche diritto sociale nascente da queste contrattazioni collettive, le quali, poi, hanno avuto riflessi anche sui contratti individuali di lavoro. Dalle origini talvolta si riscoprono aspetti utili per una riflessione attuale. Oggi la “locazione” (prestito o collocamento) di personale è ritornata in auge ed è disciplinata da una apposita legge che comunque deve poter garantire i lavoratori. Sempre oggi, purtroppo e da prima della crisi 2008, la svalutazione del lavoratore e la mercificazione del rapporto di lavoro è spesso una realtà causata dal neoliberismo che spero abbia i giorni contati. Il futuro è la riduzione delle diseguaglianze.

Avv. Matteo Quadranti, granconsigliere